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Ho visto l'Orquesta

Di: Franz Andreani | 25/11/2011
Finalmente ce l’ho fatta, l’ho vista dal vivo dopo averne sentito parlare e letto, anzi ne avevo pure scritto, ma vederla è un’esperienza davvero significativa. Parlo dell’Orquesta Sinfonica De Venezuela Simon Bolivar che si è esibita mercoledì 23 all’auditorium Parco della Musica di Roma, guidata dal giovanissimo direttore Gustavo Dudamel.
Cominciamo dall’inizio, dalla frase che trovate di fianco al logo della fondazione musicale Simon Bolivar, la fondazione che tiene insieme tutto un complesso e vastissimo sistema di orchestre. “La musica come opportunità per una vita migliore – aiutare giovani musicisti di talento è il nostro contributo per uno sviluppo sostenibile della cultura e della società”.
Il sistema delle orchestre giovanili, fondato da Antonio Abreu, conta oggi più di 250.000 membri in tutto il Venezuela, con numerosi gruppi pre-scolastici dai 4 ai 6 anni, con più di 90 orchestre di bambini dai 7 ai 16 anni, più di 130 orchestre giovanili dai 17 ai 20 anni, oltre a 30 orchestre sinfoniche di adulti. Lei l’Orquesta, la punta di diamante di tutto il complicato progetto che vede coinvolti insegnati ma anche liutai, accetta musicisti dai 17 ai 26 anni, ed ha nella figura di Dudamel un direttore stabile che la segue e la forma portandola in giro per il mondo per 6 mesi l’anno. Nel resto del tempo i musicisti hanno la possibilità di lavorare con altri grandissimi direttori e solisti e di formarsi con loro. Lo stesso Dudamel proviene da questo sistema di orchestre e di anni ne ha solo trenta. Tenete presente che il 75% dei giovanissimi musicisti vive sotto la soglia della povertà e la musica è la potente arma di riscatto contro il degrado e l’emarginazione.
Dudamel ha una grandissima sensibilità – sentitelo parlare della quinta di Prokofiev e delle quinte sinfonie in particolare e vi renderete conto del meraviglioso modo che ha di affrontare le partiture, della sua modestia. Qualcuno vicino a me ieri sera, ha rintracciato segni di questa modestia anche nel gesto di Dudamel, nel modo che ha non già di indicare gli attacchi delle varie sezioni orchestrali, ma di fare in modo che l’orchestra e la musica vengano all’ascoltatore.
La serata si apre con una terza di Beethoven suonata con grande precisione. Ricordo che qualche anno fa incappai in una discussione radiofonica riguardo alla differenza timbrica o meno tra le orchestre nelle varie aree del mondo. Si concludeva dicendo che le orchestre sono ormai tutte omologate. Nulla di più sbagliato: se avessero sentito dei venezuelani suonare un Beethoven così poco tedesco, così gaio nell’’allegro iniziale e finale e così caldo nel secondo movimento, nella marcia funebre, si sarebbero ricreduti. La partitura si colora di crescendo e diminuendo anche all’interno della stessa battuta e le pause sono delle silenziosissime, lunghissime pause, ove tutti restano col fiato sospeso. Accenti con un grande significato messi con gusto da Dudamel a sottolineare frasi particolarmente belle o cambi di ritmo, una scelta non filologica di leggere uno spartito beethoveniano sicuramente, ma affascinante e moderna. È questo coraggio nel leggere le partiture che mi ha affascinato di Dudamel. Anche perché l’organico orchestrale era decisamente raddoppiato rispetto alle pur non piccole orchestre progettate dal maestro tedesco, quindi il suono era forte e ben delineato, ma vi era un’attenzione ai pianissimo davvero puntigliosa.
L’organico orchestrale esploderà in Daphnis e Chloé di Ravel, una composizione che fa pensare al volo degli uccelli e al frusciare del vento e dei ruscelli nel bosco, con un meraviglioso primo flauto. Ravel – tra l’altro – secondo me è poco amato dal pubblico di Roma, un po’ come tutti i francesi, ma questa versione ricca di giochi armonici e orchestrata con la maestria che conosciamo, si è rivelata, se possibile, ancora più colorita dall’entusiasmo di una orchestra come questa, un calore, si badi bene, che non sfocia mai nell’irruenza.
La breve suite del 1919 dal balletto L’uccello di Fuoco di Igor Stravinskij, ha definitivamente conquistato tutti, con il suo incedere tra mistero, ponderosità e amore, ci siamo trovati senza accorgerci al crescendo finale, con quel glorioso ultimo tratto nel quale tutta l’orchestra suona con una forza straordinaria. Credo che a quel punto sul palco ci saranno state 180 persone.
Dopo gli applausi parte il bis, la sinfonia da La Forza del Destino di Verdi, un omaggio all’Italia certamente ma anche un simbolo della volontà che occorre per stravolgerlo un destino di povertà e fame. Non contenti del trionfo ormai assicurato, si abbassano le luci, l’auditorium precipita nel buio, e alla riaccensione della scena, musicisti e direttore indossano una casacca con i colori del Venezuela. Lì l’orchestra si esibisce in altri due brani, due mambo suonati e mimati con allegra esuberanza. Credo che il primo sia stata una composizione di Leonard Bernstein, e la serata dopo due ore e mezza di concerto finisce, neanche fosse stato un concerto rock.
Insomma sono felice ed entusiasta e porterò questo incredibile ricordo con me, ma è giusto che dia dei ringraziamenti a coloro che mi hanno permesso di esserci. E allora grazie al motore Carlo B. a Miranda ed il suo zampone, a Barbare che ci ha condotto, a Giuliano che ci ha ospitato, oltre naturalmente a tutto il personale dell’Accademia e dell’Auditorium.

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