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Film muto

Di: Franz Andreani | 24/06/2011
Scrivo con un po’ di ritardo il mio intervento sul BLOG, un ritardo giustificato dal fatto che ho assistito al’ultima proiezioni del film di Giuseppe M. Gaudino ed Isabella Sandri “Per Questi Stretti Morire”, pellicola di cui ho avito l’onore di discutere assieme ai registi in uno speciale che potete rintracciare tra le podrubriche a nome della radio sotto il titolo “Le Interviste di Radiorock.to”. Non insisterò più di tanto sul film, ma ieri sera, tornando a casa nel mio solito lungo viaggio venendo via da Roma, ho ricevuto dall’opera cinematografica un’altra ondata di emozioni che mi hanno fatto riflettere anche al di là del contenuto del film.
Innanzi tutto è quanto meno bizzarro che un’opera d’arte come questa finisca in un cinema con due spettacoli al giorno per quattro giorni a cura degli stessi autori; lo Stato – se pure parzialmente finanzia opere di questo tipo – lo fa quasi nascondendo la mano, vergognandosene, perché poi non ha nessun mezzo e nessuna volontà di far conoscere ciò che finanzia. Tra me e gli autori-registi vi è un rapporto di amicizia e quindi so del film; per quanto sia nelle mie possibilità io mi do da fare per farlo conoscere, parlandone con chiunque e invitando tutti ad andare a vederlo, ma ovviamente non basta. Negli enti pubblici manca qualcuno che creda in ciò che questi finanziano, anche il fatto artistico è divenuto una pratica di ufficio, tra l’altro con una cifra da spendere sempre minore. Non si è mai pensato che le cose ben promosse possono arrivare ad un pubblico vasto, si esaltano invece le idee già usate dei soliti grandissimi classicissimi, nella pittura come nella musica o nel teatro, ci sono sempre i soliti, perché le solite cose viste e riviste, sentite e riproposte, sono rassicuranti, ci mettono in pace con un futuri incerto, e ci addomesticano al potere e alle sue scelte.
Se quei fondi per il cinema, ma il discorso si allarga benissimo a tutta l’arte nel paese con la più alta concentrazione di opere d’arte al mondo, fossero usati credendo e investendo in conoscenza, i film come quello visto ieri sera girerebbero un po’ nelle nostre città, e si potrebbe parlare di un tema bellissimo ma anche drammatico come quello della vita di Alberto Maria De Agostini. Egli era un appassionato cineasta ed esploratore, che per seguire il suo amore per le terre inesplorate e per la Patagonia si è fatto salesiano ed è partito in missione negli anni ’20 del secolo scorso. Giunto laggiù, con passione ed amore appunto, ha documentato dei luoghi meravigliosi, ne ha tracciato le carte, li ha filmati e fotografati. È capitato in un momento nel quale gli indigeni venivano allontanati dalle loro terre per far posto ai grandi pascoli e alle industrie della lana e del petrolio. La gente veniva deportata nelle città, o veniva semplicemente sterminata con la scusa di presunti fatti di sangue. De Agostini ha documentato la sparizione di queste etnie, in un certo senso partecipando di questa loro civilizzazione, in bilico tra il desiderio di salvarli ed il ricatto imposto dalle ricche famiglie locali e dalla chiesa. Tutti i suoi appunti ed i suoi diari, come i negativi delle pellicole e delle fotografie, sono spariti. Lui li inviava regolarmente ai suoi superiori eppure ai giorni nostri di questa figura ci rimane un film, “Terre Magellaniche” e un mucchio di fotografie raccolte in un museo. Da noi in Italia neppure il ricordo di un uomo che in sud America chiamano Don Patagonia. I due registi reinterpretano la storia del De Agostini senza enunciati, lasciano parlare le sue e le loro immagini.
Ed è sulle immagini del sacerdote che ieri si era fermata la mia attenzione in particolare. La confidenza e la fiducia che doveva aver conquistato presso quegli indigeni gli consentirono di girare sequenze eccezionali, come le scene dello stregone guaritore alle prese con un malato o del guerriero che prepara la lancia mostrando i denti consumati. Immagini che sono arrivate fino a noi con tutto il boicottaggio che hanno subito dopo quasi un secolo. Fino a noi, fino all’era delle immagini.
Su YouTube ogni minuto vengono caricate 24 ore di video; ci sono bambini che piangono, animali che giocano, gente che guida e fa un mondo di cose quotidiane, ci sono anche i film le serie TV i video musicali, i manuali di istruzione. Noi fotografiamo, filmiamo e pubblichiamo con ogni tipo di mezzo, telefoni macchine fotografiche, iPad, siamo quasi assuefatti dalle immagini immagazzinate in giganteschi data center, migliaia e migliaia di hard disk conetngono le immagini delle nostre vite moltiplicate a dismisura: ma che ci faremo con tutte queste immagini, cosa rimarrà di loro quando tra 100 anni le cose saranno cambiate ed i mezzi per visualizzarle saranno diversi? E quale sarà l’importanza di una così copiosa messe di inquadrature a quel punto? Le videocassette sono scomparse solo qualche anno fa ma in realtà lì c’erano molte delle nostre infanzie, che anzi si trovavano sui filmini 8mm, spariti anche quelli. Prendetela per quello che è, una riflessione, perché le nostre abitudini, per quanto riguarda le immagini, sono cambiate e sarebbe impensabile non avere tutti questi video a disposizione con un solo clic, ma le immagini stesso hanno perso gran parte del loro valore evocativo e sono diventate sempre di più finzione ed esibizione.
E allora? Mi fa tenerezza vedere quei volti che ti guardano e salutano l’occhio della macchina da presa, sapendo che con quel gesto la loro storia si stava tramandando, sapendo che non sarebbero scomparsi. Quando ero piccolo, se mio padre mi chiamava io mi giravo, vedevo l’obiettivo della sua Leicina 8mm e sorridevo e salutavo, proprio come quegli indigeni. In un epoca nella quale siamo abituati alle immagini, alla loro finzione, quelle scene meravigliose girate in bianco e nero, e a dir il vero anche le scene artigianalmente costruite dai registi, sono in grado di commuovermi ed affascinarmi e farmi gridare all’opera d’arte.

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