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Si chiama Francesca, questo romanzo.

Di: Bookworm | 02/07/2012
Di Paolo Nori, Marcos y Marcos 2011, € 14,50.
Marcos y Marcos è un editore che mi piace; mi piacciono le copertine, mi piacciono i caratteri grandi, mi piace la rilegatura solida, i prezzi ragionevoli, e soprattutto quando mi sono lasciata tentare da una copertina o una quarta o un incipit di un autore che non conoscevo non sono mai rimasta delusa. Quindi quando mi trovo in uno dei tanti megastore che dividono i libri per editore, l’angolino di Marcos è il primo dove vado a scartabellare.
Il risvolto di copertina che mi ha sedotto questa volta è stato questo: “Paolo Nori, che è nato a Parma nel 1963 e abita a Casalecchio di Reno, non sa mai cosa scrivere in queste note di copertina dove dovrebbe far finta di non essere lui e fare capire che è bravo, e intelligente, e modesto, e che ha scritto un mucchio di libri che sono piaciuti moltissimo anche ai giurati dei premi letterari e hanno avuto successo anche oltre confine in diverse lingue straniere”. Ovviamente il trucco sta nel fatto che questo risvolto è tutt’altro che modesto, quindi viene la curiosità di scoprire quanto sia bravo e quanto “se la tiri” nel testo del romanzo. Che si chiama Francesca, questo romanzo.
Nella mia ignoranza pensavo di avere scoperto una novità. Alcune indicazioni nel testo mi hanno portato a cercare la data del copyright originale e ho scoperto di essere arrivata con soli 10 anni di ritardo: il libro è del 2002, ristampato da Marcos y Marcos dopo che Nori aveva nel frattempo prodotto altri 17 libri e una ristampa. Però io l’ho scoperto adesso grazie alla copertina e al suo risvolto.
E sono contenta di averlo scoperto, di avere visto che se la tira tantissimo, ma in fondo a ragione, è una scrittura che a una prima impressione sembra un fiume in piena di monologo interiore, scorrevole e travolgente, pieno di spunti ironici e immagini lampo, brevi geniali fotografie, che strappano volentieri una risata di sorpresa. Poi dopo qualche capitolo ci si comincia a chiedere come fa a portarla avanti, la storia, come fa a non perdere per strada l’attenzione del lettore. E allora si capisce quale lavoro enorme deve esserci dietro, per tenere dietro le quinte le trame parallele, facendole comparire solo per un momento qua, poi la, dove non te lo aspetti, saltando nel tempo e fra i luoghi e i personaggi, così da riagganciare a Roma una considerazione su un evento, magari cronologicamente successivo, a Bologna, o ritrovare, quasi per caso, la spiegazione di un indizio lanciato in mezzo al racconto pagine o capitoli prima.
Certo, è irritante sentire l’autore sempre dietro alla pagina che ti fa vedere quanto è bravo, soprattutto man mano che si va avanti e si viene coinvolti dalla sua indubbia sensibilità e curiosità verso le persone, tutte le persone, e i meccanismi e le coincidenze del vivere umano. E anche degli oggetti, a volte. Magari calca un po’ troppo la mano, ma il suo sguardo sul mondo è talmente acuto e cordiale che arriva ad aprire finestre di comprensione normalmente utilizzate solo dai poeti. Ne sono un esempio i dialoghi dislessici del protagonista con le donne, che lo imbarazzano tanto da fargli perdere la coerenza di una lingua che per il resto è, beatamente per il lettore, perfetta e con tutte le virgole ai posti giusti. E la genialità di fargli incontrare, a un certo punto, una fotografa timida quanto lui: “Che io Mesto seduta? le avevo chiesto volendo chiederle dove ci saremmo dovuti mettere per fare il servizio, e lei Se non derangia subitaneo le scale, e aveva guardato l’orologio Trigesi, mi aveva detto intendendo che se non mi dispiaceva uscivam sulle scale che avremmo fatto presto avevamo solo tredici minuti di tempo. Armonia, le avevo risposto io, ed eravamo usciti su per le scale”. Che non si chiama Francesca, la fotografa.

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