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CESARE DEVE MORIRE

Di: Marcello Berlich | 11/04/2012
Una tragedia ambientata a Roma nell 44 Avanti Cristo, scritta da un inglese nel 1600 circa, messa in scena agli inizi del 21° secolo nel penitenziario romano di Rebibbia, recitata dai carcerati che stanno scontando pene per reati della massima gravità (si va dall'omicidio al traffico di stupefacenti). Ce ne sarebbe abbastanza, per tirare in ballo la potenza del teatro e dell'opera shakespeariana, esercizio a prima vista banale.
Eppure. Eppure è tutto qui. Guardando il film, a cavallo tra lavoro teatrale e docu-fiction, in un esercizio del tutto singolare, non si può fare a meno di usare questo aggettivo: potente. Potente è certamente il "Giulio Cesare", di una potenza che può essere dispiegata anche tra le mura di un carcere ad opera di attori non professionisti che (trovata geniale del regista dell'allestimento teatrale, Fabio Cavalli, che dirige i lavori del laboratorio di Rebibbia), recitano nel proprio dialetto.
Potenza evocata soprattutto dai volti di quegli attori, segnati dalla vita reale e che per questo assumono ancora maggiore credibilità mettendosi nei panni di personaggi che commettono un crimine, pur con la nobile intenzione di salvare Roma dalla tirannia. Volti scavati e segnati messi in risalto da una fotografia eccezionale che sfrutta al meglio l'efficacia del bianco e nero (altro che The Artist...).
Così, non si può fare a meno di venire coinvolti da questa rappresentazione, che i fratelli Taviani hanno assemblato non seguendo pedissequamente il risultato sulla scena, ma riprendendo le varie sequenze nel corso delle prove e quindi inserendo nel film i dubbi degli stessi attori sulla validità della loro interpretazione, i loro momenti di frizione, in un accavallarsi di teatro e vita reale, le parentesi di scoramento dovute a momenti 'difficili'. Lo spettacolo vero e proprio viene infatti seguito solo nelle fasi finali, con una coda che ci mostra gli attori che, smessi i panni dei loro personaggi, tornano nelle loro celle, e la battuta finale, affidata ad uno di essi: "da quando ho scoperto l'arte, questa cella è diventata una prigione".
Sarebbe forse scontato, tirare in ballo il valore salvifico dell'arte; eppure, mai come in casi come questo, quel valore emerge con tutta la sua forza, senza che debba ridursi a frasi fatte: vedendo il film si ha realmente l'impressione che attraverso lo studio del "Giulio Cesare" quelle persone riflettano sulla loro condizione, sul mondo 'esterno', dal quale sono arrivati e su quello 'interno' nel quale vivono.
Sarà un segno dei tempi, ma che un'opera così innovativa in Italia sia arrivata da due registi ottantenni non riesco ancora a capire se sia positivo o negativo; in tutti i casi, "Cesare deve morire" è un gran film, per il modo in cui riporta in scena una delle opere cardini della storia della letteratura (a sua volta riferita a un evento focale della storia della civiltà occidentale) e anche per il suo essere un esempio di cinema 'diverso' e per certi aspetti coraggioso.

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