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Piano Americano

Di: Bookworm | 17/02/2012
Il primo libro di Giuseppe Cederna (Il Grande Viaggio, Feltrinelli, 2004) è una celebrazione del viaggio e del contatto con la natura come tramite per un viaggio interiore e il contatto con se stesso; il secondo (Ticino. Le voci del fiume, storie d'acqua e di terra, Excelsior 1881, 2009) prosegue il discorso, riducendo le distanze e l’altitudine, commentando una serie di meravigliose fotografie di Carlo Cerchioli con i pensieri, i ricordi, le visioni e le paure che il viaggio, diffuso nel tempo (il corso del fiume è stato seguito e fotografato a tappe distanti anche mesi), ha fatto nascere di volta in volta. Questo terzo libro, Piano Americano (Feltrinelli 2011, € 15,00) dovrebbe essere diverso, visto che l’argomento è la cronaca dell’esperienza di collaborazione come personaggio in Nine, il musical ispirato a Otto e mezzo di Fellini, girato fra Londra e Roma, ma con tutta la magnificenza organizzativa di un grande budget americano. Quindi il viaggio fisico si riduce alla scoperta dei voli Roma-Londra-Bologna in business class, un’esperienza a suo modo esotica quanto un sentiero a dorso di mulo nell’Himalaya, per chi è abituato ai charter Ryanair. In fondo, per i contadini Himalayani il mulo è una cosa di tutti i giorni. Ma il viaggio interiore prosegue, il modo che ha Cederna di prendere l’energia che gli viene dalle esperienze nuove, dagli incontri, dalle scoperte, e trasformarla in forza con cui affrontare i ricordi, rivisitarli trovando anche in quelli dolorosi, anche nei rimpianti, la parte positiva, la parte che è andata a formare l’uomo che ora scrive, e che attraverso questa forza e questi ricordi arriva ad accettare se stesso.
Ma tutto questo scorre con la lettura senza pesare, perché il libro ci porta dietro le quinte di una ricca produzione cinematografica, ci fa vedere l’interno di quelle roulotte che a volte vediamo parcheggiate nelle piazze delle nostre città, o nei boschi dei nostri paesi, circondate da chilometri di cavi che si snodano e si avvolgono minacciosi come pitoni, nastri bianchi e rossi e vigili strenuamente impegnati a tenere a distanza la nostra eventuale curiosità. E ci accompagna a conoscere tecnici, sarti, truccatori, quella corte di professionisti oscuri al di fuori del loro ambiente, quelli dei titoli di coda, indispensabili per la buona riuscita del lavoro di quelli che compaiono nei titoli di testa. Ci fa respirare l’atmosfera del set, ancora magica, ancora piena di miti e leggende, i capricci delle star ma anche la generosità degli attori, del regista, di un gruppo di persone, famose o sconosciute, completamente diverse, che lavorano insieme per la riuscita di un progetto comune.
E poi c’è il filone più intrigante, più affascinante per i non addetti ai lavori, chissà se il più facile o il più difficile da scrivere per un attore: il raccontare il rapporto di un attore con il suo personaggio, la schizofrenia inevitabile, e i trucchi di un attore per sopravvivere alle trappole di memoria e di umore che il suo lavoro inevitabilmente comporta. Ed è in questo filone soprattutto che si evidenzia l’ironia e la serena autocritica dell’autore; scrivere, come recitare, è un altro modo di scavare in se stessi, e Cederna dimostra di avere raggiunto una maturità ammirevole in entrambe le cose .
A proposito, per gli ignoranti come me, ecco la definizione Wikipedia: “L'inquadratura parte dalla metà della coscia. Spesso utilizzato per inquadrare due o più persone (con un taglio all'altezza delle ginocchia), questo tipo di inquadratura serve a dare all'attore maggiore libertà espressiva e d'azione. Molti credono che questo piano sia nato nel cinema western, dove vi era la necessità di mostrare i personaggi armati, con le fondine appese al cinturone. In realtà David Wark Griffith tra il 1908 e il 1916, pur restando fedele alla tecnica del tableau, fece uso a volte di quello che in seguito fu definito come piano americano.”

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