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J. EDGAR

Di: il Bisbigliatore | 16/01/2012
'L'Informazione è Potere!' (J. Edgar Hoover)

E’ impossibile leggere qualunque cosa riguardante la storia degli Stati Uniti d’America nel periodo compreso tra gli anni ’20 e i primi anni ’70 del novecento senza imbattersi nel nome di J. Edgar Hoover. Nella sua feroce trilogia sull’America, ad esempio, James Ellroy lo tira in ballo in continuazione fornendone un ritratto spietato.
La materia è così vasta e articolata da risultare per lo meno azzardato il tentativo di sviscerarla nell’arco della durata di un film con intenti esaustivi, seppur sintetici.
Clint Eastwood non è certo uno a cui manca il coraggio di affrontare simili sfide. Significa andare a rovistare dentro l’armadio della nazione più potente della Terra, agitando scheletri mostruosi; roba ostica per qualunque cineasta statunitense, giovane o anziano, classico o rivoluzionario che sia. Credo che questo coraggio il vecchio Clint lo estragga dalla raggiunta consapevolezza di se, dalla conoscenza del mezzo con cui si esprime, dalla capacità di osservare il mondo che lo circonda, qualità acquisite passo dopo passo nel corso di decenni di lavoro serio, graduale, intenso, inseguendo il desiderio di provare a capire le persone e le cose, di raccontare storie in maniera diretta ed efficace, facendo affidamento sulla semplicità dello stile e, soprattutto, sulla profondità dei contenuti.
Probabilmente è per questo che anche i film che gli riescono meno bene di altri contengono spunti sufficienti a giustificarne la produzione e a consigliarne la visione.
E’ il caso di questa sua ultima fatica che appare imperfetta sotto vari aspetti; complessa, perfino frammentaria col suo andirivieni temporale e la struttura a flashback, di non facile assimilazione per chi non appartiene alla cultura di quel paese, o difficile da accettare per quanti credono ancora nella purezza dell’America. E claustrofobica, con moltissime scene girate in interni, nella casa materna in cui il protagonista è "imprigionato" da giovane e nell'ufficio/fortezza nel quale, per gran parte della sua carriera, si sentirà al sicuro e potrà esercitare indisturbato il suo inquietante potere.
Eppure il film non manca di lasciare un segno. E lo fa non tanto nell’analisi di alcuni degli episodi salienti della recente storia americana, politica o sociale che sia, quanto nel raccontare la vicenda privata del protagonista. Accanto alla figura pubblica di Hoover, aspro, deciso, pignolo, efficiente, maniacale, ambiguo, si affianca quella personale di un uomo solitario, insicuro, condizionato da una madre titanica, incapace di accettare serenamente la propria omosessualità, tormentato dallo spettro del comunismo, ossessionato dal desiderio di esercitare il controllo su chiunque al punto da allestire un archivio segreto nel quale raccogliere informazioni dettagliate e compromettenti perfino sulla vita delle mogli dei presidenti americani. Una figura paranoica che Leonardo Di Caprio riesce a rendere in modo efficace, con un’interpretazione concentratissima e sfiancante (è presente praticamente in ogni inquadratura), che raggiunge il culmine nelle scene che raccontano la vecchiaia e l’inevitabile declino del protagonista, dipingendone la maschera tragica con notevole intensità.
Opposta al ritratto cinico e spietato con cui il regista tratteggia la figura istituzionale di Hoover, è la compassione con la quale Eastwood ne sottolinea la vicenda umana a costituire il valore maggiore di quest'opera. L’uomo che ha guidato l’F.B.I. per quasi cinquant’anni, colui che è stato definito addirittura come l’individuo più potente e influente degli Stati Uniti d’America tanto da condizionare, in qualche modo, certi meccanismi politici e sociali della più grande ed importante democrazia del mondo era, sopratutto, un piccolo essere umano dominato dalla paura.
Assurdo! Illuminante!

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