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PINA

Di: il Bisbigliatore | 12/12/2011
In un documentario su Leonardo Da Vinci, alla domanda del conduttore su che cosa avrebbe fatto il grande genio del Rinascimento se fosse vissuto nella nostra epoca, uno storico dell’arte rispose: “il Regista”. La stessa risposta la diede, in un altro documentario, alla medesima domanda rivolta all'indirizzo dell'immenso Michelangelo Buonarroti. Questo esempio fornisce un’idea sulla dimensione della figura e del ruolo del regista nell'ambito di un progetto, teatrale o cinematografico che sia.
Nel primo caso egli esercita il proprio potere, all'interno di uno spazio geometricamente limitato, sopratutto durante la fase di costruzione di uno spettacolo che poi germoglierà ogni sera in un fiore sempre unico, grazie all’apporto fisico ed emotivo degli attori che vivono i loro personaggi in tempo reale davanti al pubblico.
Nel caso della settima arte, invece, il potere artistico del regista travalica i confini spazio/temporali andando ad incidere in maniera decisiva anche sul lavoro degli attori, manovrabili mediante il montaggio che rende possibile tagliare, interrompere, annullare, modificare qualsiasi aspetto della loro performance. Questa “dittatura” assume valore pressoché assoluto quando si incontrano registi anche autori dei film che realizzano, la cui personalità artistica sovrasta e domina qualunque cosa. Alcuni di loro sembrano seguire un percorso artistico in continuo divenire che li allontana dal linguaggio cinematografico convenzionale fatto di narrazione lineare, di significato razionale, di emozioni codificate.
L’ultimo lavoro di Wim Wenders è un’opera cinematografica assolutamente poetica. Poesia fisica, in questo caso, resa particolarmente suggestiva dalla versione in 3D. Il regista di Dusseldorf rende omaggio a Pina Bausch evitando il racconto biografico classico, nonchè inutili virtuosismi con la macchina da presa, limitando quanto più possibile il proprio potere di influenzare la narrazione, mettendosi al servizio dell’opera e del sogno della grande artista tedesca. La cui figura emerge esclusivamente mediante la proposizione del suo lavoro e delle sue idee, siano esse sviluppate sulle assi di un palcoscenico, o all’interno di palestre, o dentro saloni di vetro immersi nel verde, o agli angoli delle strade di una metropoli, oppure davanti a complessi industriali impressionanti. E attraverso la commossa testimonianza dei suoi allievi e collaboratori di ogni razza e di ogni età, danzatrici e danzatori che raccontano con i loro intensi primi piani muti e con la loro partecipata voce “fuori campo” la dimensione artistica e umana di una delle più grandi protagoniste del teatro e della danza del XX secolo. Resa ancor più gigantesca dalla quasi assenza del suo volto e della sua voce, dei quali Wenders regala solo pochi, struggenti frammenti.
Si sente spesso parlare di “cinema difficile”, come nel caso dell’ultima, filosofica opera di Terrence Malick, oppure di quella di matrice cosmica di Lars Von Trier. Eppure dovrebbe sorprendere di più la mancanza di curiosità di tanta gente, l’incapacità di riconoscere il valore poetico di un racconto e la paura di abbandonarsi al flusso delle emozioni. Il film di Wenders è un gioiello visivo e sonoro in grado di affascinare anche chi non segue la danza e non ha mai assistito ad un balletto in vita sua. A patto che sia disposto a lasciarsi guidare dal cuore, almeno per un paio d’ore…

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