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I compagni sconosciuti

Di: Bookworm | 28/10/2011
Ho avuto la fortuna di avere accesso ad una biblioteca privata ricchissima con molti libri della prima metà del Novecento, quindi da buon topo mi sono tuffata quasi a caso fra le centinaia di titoli a disposizione. Ho trovato una raccolta di tre racconti di Franco Lucentini, raccolta del 1964 che prende il titolo dal terzo racconto, Notizie degli scavi, appunto del 1964. Gli altri due racconti sono La porta (1947) e I compagni sconosciuti (1950). Quest’ultimo si può trovare ora pubblicato individualmente da Einaudi nella collana Tascabili, a € 8,50; ed è di questo che vi voglio raccontare. La trama è semplice, uno sbandato italiano nella Vienna divisa del dopoguerra, occupata dai russi e ancora piena di macerie e palazzi pericolanti per i bombardamenti, ferito ad una gamba, malato, senza soldi e minacciato dai soci contrabbandieri che credono abbia rubato la merce, cede alla depressione e pensa al suicidio.
Lucentini aveva trent’anni quando ha scritto il racconto, ed ha voluto riportare nella scrittura un uso della lingua che all’epoca era molto diffuso in tutta Europa. Franco, il protagonista italiano, vive a Vienna in una stanza in affitto presso la vedova di un cecoslovacco, e fra loro comunicano in un misto di tedesco, slavo e italiano, ciascuno inserendo le parole della propria lingua quando vengono a mancare i vocaboli della lingua comune. Incontrano poi un russo ed una polacca, e tutto il racconto si svolge intorno alla comunicazione in tutte queste lingue, con il tedesco masticato male da tutti come lingua comune di base. Il sistema di Lucentini è di scrivere le battute nella lingua pronunciata, e metterci a fianco la traduzione mentale di Franco (“Jak se màte?” gridò. Come stavo?). A volte non la mette, la traduzione, perché ormai ci siamo abituati, si capisce il significato dal contesto, i lettori possono arrivarci da soli. Probabilmente per l’epoca traduceva anche troppo, nel 1950 tutti dovevano avere un’abbondante spolverata di tedesco dopo l’occupazione. Per noi, che ci consideriamo tanto cosmopoliti, che facciamo i download, che ascoltiamo le lezioni di inglese dalle cuffie mentre andiamo al lavoro, che siamo occupati con i briefing, che facciamo le cose di default, questo uso così generoso di parole semisconosciute, questo modo semplice di comunicare in qualsiasi modo, senza schemi, senza strutture predefinite, senza paura di sbagliare e fare brutta figura, solo per capire, farsi capire, aiutarsi a vicenda, questa abitudine ad adattare il proprio pensiero alle esigenze altrui, appare quasi un atto di coraggio, mentre nel ’50 era semplicemente una delle tante modalità di sopravvivenza a cui tutti si erano dovuti adattare, e sicuramente non era delle più pesanti. Ed aveva portato una ricchezza mentale e di spirito che noi difficilmente potremo raggiungere; una ricchezza che è l’altra cosa che colpisce nel racconto: i personaggi sono tutti disperati, hanno fame, non hanno soldi, una sola ha una casa; una pentola di verdura, così dura che deve bollire per ore, è un pranzo più che soddisfacente a cui si possono invitare amici e sconosciuti, eppure gli sconosciuti si accolgono a tavola, si accolgono anche a dormire, gli si cede l’unico letto in una casa in cui il bambino dorme sulle uniche due sedie, l’istinto di sopravvivenza si esprime non con la chiusura verso il mondo ostile, ma con la solidarietà verso chiunque sia in difficoltà, perché quando si è davvero nei guai si è consapevoli che l’aiuto reciproco fra sconosciuti può essere l’unica salvezza. E’ per questo che l’ospitalità è un valore sacro nelle civiltà più povere, e si perde man mano che si acquista ricchezza. Forse noi dovremmo cominciare a ricordarcene, la situazione del 1945/50 non è che sia poi così lontana, e noi saremmo molto mal equipaggiati per affrontarla, con i nostri, lo dice la parola, “personal” computer, che ci rendono individui egoisticamente isolati nel mondo della rete.

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