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Don De Lillo: Americana

Di: Marcello Berlich | 19/01/2011
A proposito della poca comprensibilità non ricordo quale libro, mi pare "L'urlo e il furore", William Faulkner una volta ebbe a rispondere: se non l'avete capito la prima volta, rileggetevelo. Ecco, vorrà dire che "Americana", libro di esordio di Don De Lillo, mi toccherà rileggerlo, prima o poi, nonostante le 400 e passa pagine. Non che De Lillo sia paragonabile manco lontanamente a Faulkner nè "Americana" all'"Urlo e il furore"; insomma: la prosa di De Lillo è piana, piana, piana... pure troppo... Dopo aver letto "Rumore bianco", gradevole se non altro per lo scenario post - apocalittico, mi sono dunque cimentato in questo "Americana" (titolo indubbiamente ambizioso e un filo pretenzioso). E dunque? Dunque De Lillo ci narra di un tale David Bell, trentenne di successo che lavora in un network televisivo, quasi un antesignano dei giovani 'rampanti' degli anni '80 che, un pò costretto dal network, un pò per sciogliere il classico 'grumo di insoddisfazioni', prende e parte con tre amici per un viaggio verso l'America più profonda. Dopo una prima parte in cui lo seguiamo nel suo ambiente lavorativo, con una serie di vuote conversazioni coi suoi colleghi, segue un lungo excursus più 'canonico', in cui il protagonista ci racconta le vicende che dall'infanzia e attraverso l'adolescenza l'hanno portato alla situazione attuale. Nella terza e conclusiva parte, lo osserviamo nel suo viaggio, nel corso del quale armato di telecamera raccoglie il materiale per un documentario sull'America, imbattendosi in vari personaggi che si dilungano nel raccontare vari aneddoti... Ora, credo che una delle peggiori sensazioni che possano capitare leggendo un libro, sia quando, avendone lette una trentina di pagine, ci si trovi a chiedersi: maccheccacchio ho letto? E purtroppo questa è la personalissima sensazione che ho provato più volte nel corso di questa lettura: lungi da me criticare De Lillo, considerato uno dei più importanti scrittori americani contemporanei da persone molto più addentro alla 'letteratura' del sottoscritto, ma insomma, un libro in cui non succede (quasi) mai niente è duro da mandare giù: la prima parte, all'insegna di dialoghi vuoti, la seconda più narrativamente coinvolgente, la terza in cui si torna ad una sostanziale vuotezza, colmata qua e là dai racconti rilasciati dai personaggi in cui il protagonista si imbatte. Si dirà che forse il punto è proprio questo: che con questa vuotezza di azione, questo susseguirsi di facce, impressioni, descrizioni di paesaggi, oggetti e persone, riflessioni mezze smozzicate, De Lillo finisce per intercettare la vacuità dell'oggi, con le sue relazioni superficiali, accennate, dominate dalla paura di impegnarsi, il sesso come atto quasi del tutto 'meccanico', la vuotezza di senso, il successo - di carriera, ed economico, tanto le cose coincidono - concepito come unica misura della validità delle persone, i i percorsi di vita preconfezionati e improvvisamente la necessità di fuggire, per non fare la fine di chi magari cede e viene colto da infarto in giovane età, tutto questo è lo specchio dei tempi, dei quali con questo libro De Lillo si fa in buona parte anticipatore. Lo stile entra insomma a far parte del racconto, perché la storia di una persona senza obbiettivi e con una vuotezza di senso interiore non si può descrivere altro che con una prosa senza obbiettivi, in apparenza superficiale e anche discretamente noiosa: è ciò che è stato insomma battezzato come 'postmodernismo'. Tutto vero, per carità: analisi già stese da altri in questi qurant'anni (cavolo, quarant'anni, fa impressione), passati dalla pubblicazione del libro. Però il senso di insoddisfazione nel lettore resta, al punto da far chiedere: è chiaro, il vuoto delle conversazioni, della routine e bla bla bla... ma non è in fondo ciò con cui abbiamo a che fare quotidianamente, sui luoghi di lavoro? E allora, ha senso aprire un libro e trovarsi di fronte le medesime situazioni? I personaggi di De Lillo sono tutti soli, cercano una via di fuga e alla fine manco la trovano... in fondo sono gli stessi che poi dagli anni '80 assumeranno l'aspetto mostruoso dei protagonisti dei libri di Easton Ellis, e capisco che all'epoca libri come questi sembravano squarciare una sorta di velo di ipocrisia che la società si era calata addosso, costringendola a guardare in faccia sè stessa, ma allora? Allora, forse, letto da un lettore di quarant'anni dopo, abituato in fondo già da altre letture e non solo, anche dal cinema e dalla musica, a ragionare sulla vacuità dei tempi, "Americana" perde buona parte della sua forza propulsiva. E alla fine forse, un modo più corretto di approcciarlo è quello di considerarlo quasi un saggio in forma di romanzo, in cui uno scrittore molto attento a guardarsi intorno è riuscito a descrivere i suoi tempi e ad anticipare quelli a venire.

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