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Porco Rosso

Di: Marcello Berlich | 01/12/2010
In un periodo non meglio precisato (presumibilmente tra gli anni '30 e '40), l'aviatore Porco Rosso - così soprannominato per le sembianze porcine e l'aereo cremisi - vola su e giù per i cieli dell'Adriatico - dopo aver disertato dall'aviazione fascista - sbarcando il lunario come cacciatore di taglie sui 'pirati dell'aria'. Dopo aver rimesso in sesto l'aereo - giunto al limite - grazie all'aiuto di una giovane e intraprendente meccanica, affronterà il duello finale con un aviatore americano, assoldato dai pirati per toglierlo definitivamente di mezzo, mentre sullo sfondo si staglia una storia d'amore tormentata. Uscito nel 1992, "Porco Rosso" ha vissuto le stesse vicende del suo precedessore "Totoro", venendo finalmente premiato con la proiezione su grande schermo in Italia. Siamo di fronte a un Miyazaki un pò diverso dal solito: lontano dall'alone leggendario di altri suoi lungometraggi, infarciti di riferimenti alla mitologia giapponese, non sempre comprensibili ai più, in questa occasione il maestro dell'animazione giapponese somma la sua passione per gli aerei all'affetto che prova per l'Italia, ambientando tra l'Adriatico e Milano la vicenda, e cogliendo l'occasione per offrire allo spettatore le sue spettacolari visioni dall'alto dei panorami italiani. Omaggio all'Italia che non si ferma qui: molteplici sono i riferimenti, soprattutto all'epoca d'oro dell'aviazione italiana (Francesco Baracca è solo il primo e più famoso a essere citato in una serie di aviatori realmente esistiti), mentre il nome del protagonista, Marco Pagot, è un omaggio agli omonimi fratelli, creatori tra gli altri di Calimero. La storia, lineare è anche abbastanza concisa: dopo la presentazione del personaggio e del suo mondo, si passa direttamente al capitolo del 'restauro' dell'aereo, con l'ennesimo personaggio di ragazza forte e determinata, in una delle consuete 'scene di insieme' all'insegna dell'unione fa la forza in cui il velivolo viene completamente ricostruito da un'equipe tutta al femminile (gli uomini tutti all'estero per lavorare), in cui di distinguono ancora una volta le 'vecchiette', ricorrenti nella cinematografia di Miyazaki; si passa poi alla scena finale del duello, privo di una vera e propria conclusione. Un'atmosfera di sospensione, quasi di ellissi, che avvolge tutto il film: nulla ci viene detto riguardo le motivazioni della trasformazione del protagonista, limitandosi a suggerimenti sui quali lo spettatore può costruire la sua personale storia. Come al solito si ride, e al lato opposto ci si commuove di meno rispetto a "Ponyo" o allo stesso "Totoro". Non siamo ancora ai livelli di autentica visionarietà de "La città incantata", ma è comunque l'ennesimo esempio della capacità di Miyazaki di costruire storie che eccitanto la fantasia dello spettatore a prescindere dall'età. E concludendo con la massima - principe esclamata dal protagonista di fronte all'aviazione italiana dell'epoca che gli intimava di entrare nei ranghi: "Meglio porco che fascista".

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