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Una vita tranquilla

Di: Marcello Berlich | 17/11/2010
E' quella che si è faticosamente ricostruito un camorrista fuggito in Germania, moglie e figlio lasciati in Italia (anche per loro sicurezza), nuova famiglia, nuova moglie e nuovo figlio, un'attività di ristoratore portata avanti con successo; il passato torna però a bussare alla sua porta, proprio nelle sembianze di quel figlio il quale - motivando la visita con questioni di 'lavoro' (accompagnato da un 'collega') - si scoprirà ben presto aver seguito le orme paterne, diventando a sua volta un killer della camorra. La situazione prenderà così la prevedibile brutta piega, costringendo il protagonista a chiudere definitivamente i conti col passato. Di fronte alla promessa (e mantenuta) ennesima prova di Toni Servillo, la curiosità era di vedere se il regista si sarebbe fatto travolgere dalla sua presenza scenica (in questo caso accresciuta dall'intepretazione 'trilingue': italiana-tedesca-napoletana), o se avrebbe saputo tenere saldamente in mano il timone del film: ebbene Claudio Cupellino riesce a non cadere nella facile tentazione di lasciare la scena a Servillo, imbastendo invece un meccanismo che funziona per conto suo. Da un lato il padre, dilaniato da i sensi di colpa nei confronti di quel figlio abbandonato e dalla necessità di difendere la tranquillità raggiunta quando questa viene messa a rischio proprio da quella visita improvvisa; dall'altro, il figlio interpretato con efficacia da Marco d'Amore, alla ricerca di un rapporto ormai perso, accennando addirittura un tentativo di inserimento nel nuovo menage familiare del padre, ma sul quale poi hanno la meglio il rancore e il sentimento di abbandono. Cupellino ha il merito di dosare con abilità le emozioni di entrambi, e alla fine oltre al film ne trae giovamento anche l'interpretazione dello stesso Servillo, al quale è evitato l'ingrato compito di reggere su di sè tutte le sorti del film. Con uno svolgimento lineare, e un finale in cui il regista inganna lo spettatore con una serie di 'finte' certo abbastanza 'crudeli' nei suoi confronti, quanto decisamente efficaci, il film si lascia apprezzare, oltre che col suo utilizzare qua e là il registro della commedia, specie nella prima parte, anche grazie a una fotografia dai colori algidi e alle musiche, affascinanti - per quanto ormai abbastanza riconoscibili - di Teho Teardo.

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