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UNLIKE. COME LA LINGUA DI FB IMPOVERISCE LA REALTA'

Di: Gianluca Cicinelli | 01/11/2010
“Stupra moglie e figli, eviscera i suoceri, dà fuoco all'appartamento e si spara”: non ci pensi due volte e clicchi “mi piace”. Cosa avrà in realtà voluto dire chi ha messo la notizia tra le sue esternazioni di facebook e cosa avrai capito davvero di quel messaggio, tu che hai voluto partecipare del suo senso su facebook?
La realtà della comunicazione non è perversa solo nelle grandi redazioni che passano il tempo ad omettere o aggiustare notizie per costruire l'ideologia del potere. Anche noi in piccolo partecipiamo ogni giorno a questo annientamento lento ma costante dei significati linguistici e di conseguenza morali con cui siamo cresciuti. Magari colui che ha pubblicato il link all'articolo è un neo divorziato pentito della consensuale e un po' invidioso della determinazione del protagonista efferato... sono solo fantasie, per carità, c'è un mare con l'azione, ma dietro quel sorriso cinico che ci ha stimolato l'articolo noi abbiamo partecipato seppur inconsapevolmente della morbosità di uno del quale conosciamo solo il nome, qualche pensiero profondo tipo “che palle un'altra giornata di lavoro”, le foto col cane e l'adesione al gruppo “mai più senza cubo di Rubik”.
In realtà poi era soltanto qualche giorno che non avevamo notizie di quel sociopatico che su FB ci sta tanto simpatico e allora gli abbiamo voluto esprimere come un saluto, a dire “ciao, rieccoci”. Un livello ancora più superficiale di conoscenza, a conferma che tra un contatto e una comunicazione reale corrono trent'anni di personal computer. In sostanza noi oggi non sappiamo niente delle persone con cui interagiamo o, come andava qualche tempo fa, c'interfacciamo. La caduta del livello di qualità della comunicazione giornalistica va di pari passo col decadere delle comunicazioni interpersonali, della loro decontestualizzazione dal piano umano.
Un esempio di questo oggettivo logoramento della comunicazione sta nei gruppi sedicenti politici che nascono su FB. C'è un tizio tra i miei amici di social network che ne mette in piedi due o tre al giorno: Berlusconi fischia e lui fa il gruppo “quelli che non fischiamo mai”, Berlusconi si sveglia e lui fa il gruppo “quelli che dormono sempre”, Berlusconi va a dormire e lui fonda “non chiuderemo mai più occhio”. È innocuo, probabilmente è convinto di far politica, ormai lo ignoro.
Ogni tanto però arriva qualcosa di più impegnativo, l'invito ad esempio ad una raccolta di firme ed altre agitazioni contro la distruzione della scuola del ministro Gelmini. Così cerchi di trasformare quel click in qualcosa di più, mandi inviti ad amici, cerchi di capire se puoi fare qualcosa parlando direttamente con qualcuno. Poi, mentre la pagina FB arriva a superare le diecimila adesioni, mandi mail agli amministratori per metterti a disposizione e rimani interi giorni senza risposta. Fino a quando senti altri che volevano partecipare e non hanno nemmeno loro ricevuto risposta, rendendoti conto che nel senso di una pagina su FB c'è tutto il fallimento e il salto di un'intera generazione, che comprende l'anello di congiunzione dei cinquantenni con un piede nell'era analogica, incapace di condividere criticamente la propria esperienza sociale e politica tramite la rete, anzi, alla fine triturata nel vortice, che soccombe al virtuale accettandone la minor fatica esistenziale che comporta.
Sono molti i gruppi che rispondono alle modalità sopra descritte, ma è anche fuori luogo la condanna moralistica del comportamento dei fondatori del gruppo anti Gelmini e di tanti altri dispersi come mondezza spaziale, detriti cosmici che continuano a ruotare intorno a FB. L'errore più grave sta al contrario nel presumere una qualsiasi affidabilità per qualcosa che valga più di un click in un gruppo politico su FB. Ciò che avviene nella comunicazione privata o semi-pubblica del social network si riproduce nell'impoverimento degli approfondimenti sui giornali. Ciò che un tempo era giornalismo rigoroso anche in giornali molto diversi tra loro, il Giornale di Montanelli o il Tempo di Gianni Letta, le grandi scuole di cronaca di giornali come il Messaggero, la cronaca sociale di Paese Sera, tutto ciò impallidisce di fronte alla povertà linguistica del panorama attuale. Tutti sanno che oggi l'80 per cento dei lettori legge solo i titoli e non tutti di tutte le pagine. Così come si scorre distrattamente la colonna della Home di FB, cercando cognomi o argomenti chiave che richiamino la nostra attenzione.
I giornalisti hanno introiettato l'imperativo assoluto che viene dalla rete e dagli editori, secondo i quali troppe spiegazioni annoiano, e agiscono di conseguenza, sottraendo parole e fatti alla comunità di lettori. Che non protesterà oltre un certo limite perchè è ormai passivizzata, permeata com'è di quel rapporto superficiale con l'informazione introdotto dal tasto “mi piace” e dalle sue implicite e mai disvelate conseguenze sulla comunicazione e sulle possibilità di critica dell'esistente che una lingua ricca, l'opposto della lingua povera del social network, permette a tutti.

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