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Paul Auster, "Città di vetro"

Di: Marcello Berlich | 03/11/2010
Alla fine, con Paul Auster si va sempre a parare lì: al 'Caso'. Non a caso, uno dei suoi romanzi più riusciti si intitola "La musica del caso", e forse più di ogni altro riassume il peso che il Caso ha nelle sue opere. Scusate lo scioglilingua, per niente casuale, peraltro. Tra l'altro è complicato scrivere di questo racconto, che apre la famosa 'Trilogia di New York", forse la sua opera più nota: quando tanti altri hanno speso fiumi di inchiostro sul tema, cosa aggiungere? Giusto le impressioni personali, ma dopo tutto, siamo qui per questo...
Tecnicamente si apre all'insegna del 'giallo', dell'hard boiled... Uno scrittore di gialli riceve una serie di telefonate da una persona che cerca l'investigatore Paul Auster (sic), decidendo poi di impersonarlo per vedere dove lo porterà quel caso. Si troverà a che fare con una storia alquanto ingarbugliata, e sostanzialmente priva di sbocchi e di senso, che lo porterà però a cercare di dargli un senso, cadendo nell'ossessione e alla fine a perdere sé stesso e la propria identità.
Messa così, non si capisce niente, ed è vero: in effetti il maggior pregio di questo racconto - e ciò che, suppongo, l'ha portato a venire considerato uno dei vertici della narrativa americana contemporanea - è l'impossibilità di sintetizzarlo: perché nel corso della lettura si affastellano appunto talmente tante chiavi di lettura, da rendere impossibile darne un resoconto anche lontanamente soddisfacente.
Un racconto che parla di identità, del collegamento tra la persona e il suo nome (e tra le parole e i nomi che usiamo per definirle) che Auster utilizza anche per parlare del rapporto di un'autore con le creature dei suoi racconti o con gli pseudonimi da esso utilizzati, inserendo addirittura sé stesso come personaggio della storia. Nel procedere della lettura, tutto diventa labirintico, e lo stesso autore sembra staccarsi in fondo dalla sua storia in modo da non darne una lettura univoca, ma lasciando che ogni singolo lettore ci metta del suo, mentre la narrazione si fa rarefatta.
È un racconto spiazzante, probabilmente da leggere dopo aver preso già confidenza con Auster e la sua narrativa in cui storie apparentemente lineari prendono svolte improvvise lasciando il lettore sospeso (come appunto succede con "La musica del caso"), ma in fondo il bello è proprio questo: la capacità dello scrittore di camminare al confine con l'assurdo e il nonsense senza superarlo mai completamente, lasciando così alle sue narrazioni quel tanto di 'intellegibilità' da renderle fruibili più o meno a tutti, sommando a questo la sua scelta di non imporre mai la propria visione, ma di far evolvere quasi le storie per conto proprio, lasciando al lettore il compito di 'metterci del suo'. Al termine della lettura, si resta con un interrogativo grosso come una casa in testa, il che spinge a ragionarci su e a cercare la strada per dare a ciò che si è appena letto un significato, il che se vogliamo, differenzia in positivo i libri di scrittori come Auster da quelli che, una volta chiusi, sono messi da parte, e quasi subito dimenticati.

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