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UNA SPERANZA DI PACE IN MEDIORIENTE CHE NON DEVE MORIRE

Di: Gianluca Cicinelli | 27/09/2010
“Uno stato Palestinese? Non ce n'è quasi più motivo, tra poco gli arabi saranno più degli ebrei in Israele e avranno pacificamente la maggioranza!” Sharif, giornalista palestinese nei Territori Occupati, accenna con un sorriso la battuta che, per caso, pochi giorni prima avevo sentito da un collega israeliano presso la sala stampa esteri di Roma. Gli accenti sono diversi ma lasciano trapelare la drammatica verità che si nasconde dietro il tentativo del premio nobel preventivo Barak Obama per trovare una soluzione di pace in Medio Oriente. Ormai qualsiasi soluzione sulla carta rischia di essere travolta dal movimento della demografia da una parte e da quello del fondamentalismo estremista delle fazioni iperreligiose, le armi e le milizie di entrambi gli schieramenti. Molto dipenderà da quel che accade nel momento in cui questo articolo viene pubblicato, cioè la notte tra il 26 e il 27 settembre, data di scadenza sulla moratoria degli insediamenti in Cisgiordania del governo di Tel Aviv. La decisione di Israele sulla moratoria degli insediamenti in Cisgiordania rivelerà le vere intenzioni dello Stato ebraico sul processo di pace con i Palestinesi e avrà ripercussioni su tutto il Medio Oriente secondo Nabil Shaath, braccio destro del presidente palestinese Abu Mazen, convinto che se il dialogo non farà sostanziali passi in avanti l'alternativa non sarà il mantenimento, impossibile, dell'attuale status quo, ma il precipitare della situazione che porterebbe a una destabilizzazione dell'intero Medio Oriente. E' stato lo stesso re di Giordania, Abdallah II, a indicare la posta in gioco: "Se dovessimo fallire la prova del 26 settembre, una nuova guerra scoppierà entro l'anno e altre guerre nella regione nei prossimi anni". Abu Mazen da parte sua ha affermato, intervenendo all'Assemblea Gernerale dell'Onu, che Israele deve scegliere tra la pace e la ripresa della costruzione degli insediamenti, una politica quest'ultima che potrebbe far fallire prematuramente i colloqui di pace diretti riavviati il 2 settembre scorso. Il leader palestinese ha anche denunciato la "mentalità espansionista e dominatrice di Israele", affermando tuttavia che "le nostre mani ferite sono ancora capaci di tenere un ramoscello d'ulivo". Mentre si consuma l'ennesimo scontro diplomatico, che significa comunque il silenzio delle armi, tra lo scetticismo dell'opinione pubblica mondiale, abituata al continuo fallimento delle trattative di pace tra israeliani e palestinesi, viene sottovalutato l'impatto che stavolta una rottura potrebbe avere sulla presidenza Usa di Obama. In difficoltà sul fronte interno, messo alle corde in diretta televisiva da semplici cittadini che contestano l'efficacia della sua riforma sanitaria e degli interventi per frenare la crisi economica, circondato dalle iniziative dei repubblicani, che si affidano alla volgarità intollerante e sedicente religiosa inaugurata da Sarah Palin durante la corsa fallita per la vicepresidenza a fianco di Mc Cain, Obama che doveva cambiare il mondo ridandogli una speranza rischia di non venire nemmeno rieletto tra due anni alla scadenza del suo mandato. Riuscire là dove hanno fallito tutti diventa a questo punto un obiettivo strategico della presidenza Obama, che oltre alla pace in medio oriente gli consentirebbe di ritrovare una strada per l'exit strategy dall'Afghanistan, dove l'esercito occupante a fianco di Karzai riesce a tenere sotto controllo la situazione esclusivamente nel centro di Kabul e prima che venga notte. Potrebbe essere questo l'elemento decisivo per la trattativa tra palestinesi e israeliani. Se ci sarà un accordo di pace in Medio Oriente nei prossimi mesi, ''quando torneremo qui l'anno prossimo potremmo avere un accordo che ci porterà uno nuovo membro delle Nazioni Unite: uno stato indipendente di Palestina, che vive in pace con Israele”, ha sottolineato Obama nel suo discorso all'Onu. E rivolgendosi a chi non crede in questo esito ha spiegato che “questa volta sarà diverso, questa volta non lasceremo che terrore, tensione, irrigidimenti o politica di piccolo cabotaggio si mettano di traverso. Questa volta non penseremo a noi stessi, ma alla giovane ragazza di Gaza che non vuole che i suoi sogni siano bloccati, o al giovane ragazzo di Sderot che vuole dormire senza l'incubo dei razzi. Questa volta dobbiamo ricorrere agli insegnamenti di tolleranza che riposano al cuore di tre religioni che hanno fatto sacro il suolo di Gerusalemme”. Parole inedite per un presidente degli Stati Uniti cosciente che altre volte è bastato un piccolo incidente alla vigilia delle trattative per far saltare tutto. Parole sottovalutate perchè misurate sul fronte mediorientale mentre Obama parlava a beneficio del suo elettorato deluso dai suoi scarsi risultati. In queste ore, mentre fonti del governo di Tel Aviv smentiscono qualsiasi proroga della moratoria, la radio militare israeliana ha previsto che Netanyahu cercherà di giungere a una intesa tacita con Usa e Anp per proseguire le trattative e limitarsi, sul terreno, ad attività modeste e contenute. Anche Abu Mazen dal canto suo mostra la faccia dura ma non sembra disposto a rompere la corda, dichiarando al giornale arabo al Hayat, ripreso anche dai giornali israeliani, che i palestinesi non lanceranno una nuova Intifada qualora i colloqui di pace dovessero arenarsi. "Abbiamo provato l'Intifada e ci ha portato solo tanti danni" ha sottolineato il leader di una parte dei palestinesi. Perchè l'altra incognita che grava su queste grandi manovre è il pesante silenzio di Hamas, di fatto autorità amministrativa e militare palestinese nella striscia di Gaza, che oltre a non riconoscere Israele non riconosce nemmeno la legittimità dello stesso Abu Mazen. Tra poche ore lo scenario dei prossimi anni sarà delineato. E' dovere di tutti credere e volere contro ogni pessimismo della ragione che una sottile strada di pace possa essere tracciata. I sogni di Ghandi e di Martin Luther King ci hanno insegnato che un altro mondo è possibile.

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