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William Gibson - Guerreros

Di: Marcello Berlich | 26/04/2010
Irritante. Non trovo aggettivo più adatto per descrivere l'ultima opera in ordine di tempo scritta da William Gibson 'padre del cyberpunk', uno che con libri come Neuromante o Monalisa Cyberpunk ha rivoluzionato la narrativa di fantascienza, imponendosi allo stesso tempo come uno degli scrittori più 'visionari' e 'preveggenti' degli ultimi trent'anni.
Uno status che a Gibson riconosco anche io, 'senza se e senza ma', si potrebbe dire. Il che non vuol dire, come spesso accade per scrittori, attori, musicisti e artisti in genere, accettare come 'capolavoro' qualsiasi opera essi producano. Il solito discorso dell'arte, se vogliamo, lo scontro tra la 'valutazione a prescindere' e gusti personali.
La questione è poi se vogliamo abbastanza semplice: "Guerreros" è libro tanto poco sopportabile (almeno secondo il mio gusto personale), quanto più in esso vengono ulteriormente accentuati certi caratteri tipici della scrittura gibsoniana, inizialmente delle caratteristiche, appunto, 'distintive', ma che col passare del tempo si sono fatti sempre più 'invadenti'.
Finendola coi giri di parole, insomma: "Guerreros" è un libro in cui la tendenza di Gibson alla descrizione più che alla narrazione diviene sempre più preponderante.
I personaggi che 'animano' il libro (la cui trama è il solito mix di personaggi improbabili, cospirazioni, spie, etc...) si muovono come automi, completamente privati di qualsiasi approfondimento psicologico, descritti quasi esclusivamente in base a vestiti, taglio di capelli, oggetti... A proposito, la fissazione di William Gibson per oggetti, design, ambienti, architettura, la riflessione sul significato di 'arte' nell'era digitale, certi collegamenti tra realtà virtuale, spiritismo e sciamanesimi vari, assume sempre più i caratteri di una monomania... dei personaggi e della 'storia' a Gibson sembra fregare poco o nulla in realtà.
La 'storia' in questione ci viene, come al solito, poi, proposta a 'spizzichi e bocconi' col classico meccanismo, ormai scontato, delle 'storie parallele' che alla fine 'cozzano' tra di loro. Per tutto il libro i personaggi si muovono apparentemente senza alcun senso, ci vengono proposti mentre compiono azioni banali, i veri protagonisti delle quali alla fine sono gli oggetti da essi maneggiati, si incontrano in dialoghi anonimi e quasi del tutto privi di utilità ai fini della storia, come se le azioni veramente rilevanti accadessero altrove, quando si 'cambia quadro' e le loro motivazioni restassero nella loro testa.
Chiaramente, nessuno da Gibson si aspetta una 'narrativa tradizionale', ma almeno un minimo di comprensibilità si. Certo, c'è il 'giochino' (ripeto, ormai abbastanza scontato), del 'tutto poi ve lo spiego alla fine', ma ripeto, leggere centinaia di pagine nella quale i protagonisti si muovono sembrando addirittura loro stessi incapaci di comprendere perché, senza alcun collegamento, beh alla lunga stanca e diventa appunto, irritante e basta. Il risultato è che in gran parte del libro succede talmente poco che poi le parole si confondono davanti alla vista, si finisce per saltarne una, due, poi per scorrere intere righe, accorgendosi di avere 'letto' trenta pagine senza aver capito nulla di quanto è successo. Poi si torna indietro solo per scoprire che non è successo nulla, e il fatto del 'tutti i nodi si sciolgono alla fine' non basta certo a giustificare quelle che alla fine risultano essere poco altro che 300 pagine e passa di noia assoluta.
Massimo rispetto per Gibson e il suo passato, e questo libro piacerà probabilmente moltissimo ai 'critici' con la puzza sotto al naso che amano tutto ciò che resta di difficile interpretazione ai 'comuni mortali', ma questo in fin dei conti sembra essere null'altro che un testo ben poco riuscito e un grave sintomo della sostanziale china discendente presa dall'autore, della quale in fondo non resta che dispiacersi.

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