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L'INCAPACITA' DI DIRE: "HO SBAGLIATO"

Di: Marcello Berlich | 15/03/2010
C'è una cosa che tutta la vicenda delle liste elettorali ha messo ancora una volta in luce: ed è la completa e totale incapacità (o mancanza di volontà?) del Presidente del Consiglio di pronunciare - almeno in pubblico - quelle due parole: 'ho sbagliato'.
La situazione è diventata caotica, il paradosso è che gli errori, il pressapochismo, la faciloneria di certi soggetti ha messo il PDL proprio nelle mani della magistratura da loro sempre guardata con sospetto; ancora più paradossale proprio il fatto che le stesse leggi contro i quali il PDL si è scagliato, accusandole di eccessiva burocraticità, stanno comunque permettendo al Partito del Premier di compiere una sorta di 'giro delle Sette Chiese' - o se volete di 'gioco dell'oca', nel corso del quale prima o poi è probabile che riceveranno un giudizio a loro favore... e allora l'Italia tornerà improvvisamente ad essere un Paese democratico... Questo per sintetizzare gli ultimi sviluppi, ma solo per dire che se la situazione non fosse diventata così ingarbugliata ci sarebbe da farsi due risate, pensando che Berlusconi in fondo è come il caro, vecchio Fonzie di "Happy Days", che non ammetteva mai l'errore (storica resta la puntata in cui, messo alle strette da Ricky Cunninham, pronunciò finalmente la frase 'ho sbagliato').
Insomma, a mia memoria Berlusconi in pubblico quelle due parole non le ha mai pronunciate, e questa 'cifra stilistica' si è ovviamente trasmessa per osmosi al 'suo' (inteso come di sua proprietà) Partito, e agli esponenti di esso.
In questi giorni abbiamo visto i 'soliti' rappresentanti del PDL interpellati sul 'caos-liste', esibirsi tutti più o meno nello stesso 'refrain': nulla è stato sbagliato, è colpa dei radicali e dei giudici.
Una mancanza di autocritica così sfacciatamente messa in mostra (peraltro contro ogni evidenza, visto che tutta la storia del panino non l'hanno certo messa in giro i radicali) che al confronto la continua autoflagellazione del PD e della sinistra in genere appare veramente quasi surreale.
Però, a ben vedere, la questione va ben oltre la politica, Berlusconi, il PDL o il PD. A me pare che sia gran parte della società italiana, ad aver dimenticato il valore dell'autocritica e dell'ammissione  dell'errore commesso. Prendiamo i due 'principi' della stampa di antiberlusconiana militante, Santoro e Travaglio: come Berlusconi, anche loro sono monolitici, sfiorando, e spesso oltrepassando, lo stesso confine  dell'autocompiacimento oltre il quale sistematicamente si avventura il 'presdelcons'.
Nemmeno da loro, mai un accenno, seppure velato di autocritica: entrambi campioni delle loro idee, detentori della verità ssoluta, appartenenti all'empireo e incapaci di commettere errori come i comuni mortali.
Gli stessi atteggiamenti li ritroviamo guardando al calcio, religione nazionale: anche qui non si sbaglia mai, o raramente. L'errore è sempre o quasi dell'arbitro, oppure si tirano in ballo fattori esterni (l'ambiente, il campo), o addirittura l'imponderabile (loro fortunati, noi sfortunati).
Mai, o almeno, molto raramente, che si senta qualcuno affermare 'si, errore mio, capita', ad eccezione di situazioni così manifeste che negare l'evidenza apparirebbe ridicolo.
Ho preso ad esempio politica, stampa, calcio; l'elenco potrebbe continuare (quanti imprenditori danno genericamente la colpa dei loro rovesci alla 'crisi', nascondendo la propria incapacità?). Potremmo addirittura scendere nelle strade, dove sembra essere diventato complicato perfino chiedere scusa se si ura inavvertitamente qualcuno.
Il vero paradosso è che tutto questo avviene in Italia, la culla della religione cattolica, dove ogni messa si apre con l'atto di dolore e l'ammissione delle proprie colpe.
Non so come sia la situazione altrove: mi pare però che quest'incapacità di ammettere i propri errori, di dare sempre la colpa a qualcun altro, questa arroganza nei modi e nelle parole, si stia sempre più affermando come un carattere tipico  degli italiani, che rivela un'incapacità di fondo di guardare oltre il 'sè', il 'proprio', considerando le ragioni altrui: un segnale per niente rassicurante, che delinea una società sempre meno coesa.

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