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Case

Di: Marcello Berlich | 25/01/2010

 Le cronache delle ultime settimane ci riportano tre notizie, diversissime tra loro: sabato la tragedia di Favara, due bambine morte sotto le macerie della loro casa, un terzo grave in ospedale; qualche giorno prima, la situazione di degrado in cui vivevano una donna polacca e sua figlia, costrette a utilizzare come abitazione delle grotte di tufo a Frascati; qualche giorno prima i fatti di Rosarno, nei quali probabilmente hanno giocato un ruolo determinante le condizioni in cui erano costretti a vivere gli immigrati,  accampati in tende o altri ricoveri di fortuna.
Il comune denominatore è la casa. L'avere un 'tetto sulla testa' nel sentire comune è condizione necessaria per vivere dignitosamente, è al secondo posto della lista dopo l'avere di che sfamarsi, eppure in Italia ci troviamo troppo spesso di fronte a situazioni nelle quali tale necessità viene negata.
I casi citati sono diversissimi: la famiglia di Favara aveva fatto richiesta di un alloggio popolare, vivendo nel frattempo in un edifico che (come al solito...) tutti sapevano essere fatiscente. Il caso di Frascati include forse una buona percentuale di dignità, unità alla vergogna del chiedere aiuto; la situazione di Rosarno era caratterizzata dalla solita 'illegalità a tutti nota' (gli immigrati costretti a vivere in alloggi di fortuna perché clandestini, ma allo stesso tempo aiutati dalla popolazione).
Si fa presto a dire che 'certe cose non dovrebbero succedere' che, 'quello alla casa è un diritto', etc... Si fa presto a dirlo, purtroppo, perché è d'altro canto fin troppo evidente che per ovviare al problema non si fa abbastanza. Il problema di fondo è che la questione non rientra nelle agende politiche dei Governi, al di là delle dichiarazioni di principio troppo spesso smentite dai fatti, rifugiandosi dietro alle statistiche rassicuranti (l'80 per cento delle famiglie vive in case di proprietà), riducendo la questione a fatto residuale.
Si giunge così a situazioni paradossali, come a Roma dove da anni si parla di 'emergenza abitativa', dove le occupazioni si susseguono a catena, ma dove a ogni cambio di amministrazione ci si butta sull'edilizia come 'motore dell'economia', si assiste a nuove aperture di cantieri, costruzione di condominii o 'quartierini-satellite', in zone magari prive di servizi (strade sterrate, scarsa illuminazione, collegamenti pubblici distanti chilometri) in onore alla norma (tutta nostrana) del  'prima costruiamo (e vendiamo) le case, i servizi arriveranno'.
La verità è che l'unico piano serio di edilizia popolare in Italia risale agli anni '50, reso necessario dalla ricostruzione postbellica; poi, tante promesse, spesso poco o per niente mantenute.
Indubbiamente c'è qualcosa che non funziona, ed è anche molto facile da individuare: la costruzione di abitazioni funziona solo se dà modo di lucrarci (ampiamente) sopra.
L'edilizia 'popolare' che risponda al principio di 'dare a tutti un tetto sotto cui vivere' resta tra le 'buone intenzioni' (anche se forse non ci vorrebbe poi tanto, e il costo dell'operazione non credo sarebbe poi tanto esorbitante).
Manca la volontà politica, ma alla base forse, vi è un fin troppo diffuso 'disinteresse civile' per la questione.


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