Arriva qualche giorno fa da Mauro, nella mia casella di posta, un articolo del 2005 del filosofo Rocco Ronchi. Non lo conoscevo. Mi sembra interessante, come è interressante la missione di Ronchi: cercare di spiegare l'oggi con la filosofia.Â
Vi giro l'articolo, un tassello in più non fa male, estrapolato dalla newsletter di Buongiorno.it .
Musica per le ombre
Nel 1976 a Winterland, San
Francisco, il gruppo rock The Band tenne il suo ultimo concerto prima dello
scioglimento. Martin Scorsese dedicò all'evento un memorabile film documentario.
Come si suole dire in queste occasioni, un'intera generazione sfilò sul palco
quasi a sancire la malinconica fine di un'epoca. Da allora il rock non ha fatto
altro che continuare a morire. Sebbene giovane anagraficamente ha cominciato ad
assomigliare a quegli anziani che, privi di un credibile futuro, vivono solo di
ricordi e di patetici, quanto ingenui e disperati, "come eravamo". Ciò che era
nato per dare una voce inconfondibile ai "principianti assoluti" del nuovo mondo
uscito dalle tenebre della seconda guerra mondiale, nel volgere di pochi anni si
era trasformato in una grande finzione che doveva coprire con lustrini e
cotillons il precoce invecchiamento di una generazione. Con il concerto di
chiusura della Band a San Francisco, il rock, secondo Martin Scorsese, diventa
definitivamente questa mesta musica di reduci con gli occhi fissi nel passato. A
dispetto delle chitarre elettriche e del loro rumore, il rock si fa musica
elegiaca. Musica per i defunti, musica per le ombre, musica che celebra
un'irrimediabile assenza.
***
John Lydon e Sid Vicious
Di questo aspetto geriatrico
del rock, proprio in quello stesso fatidico 1976, si rendono perfettamente conto
i punk. A differenza dei movimenti eretici che si battono per una
rivitalizzazione del sentimento religioso attraverso un ritorno alle origini,
l'eresia punk non volle affatto risuscitare il cadavere del rock'n roll. Anche
le sue chitarre scordate e bistrattate suonavano a morto, ma senza elegia, senza
ombra di nostalgia, tradendo anzi un desiderio sfrenato di affrettare la fine
della creaturina. A caratterizzare il punk è un unico ritornello, ossessivamente
ripetuto, scandito con la dogmatica ottusità di un militante della rivoluzione
culturale cinese: non c'è nessun futuro e quindi il rock, che della speranza si
diceva figlio, è solo una grande truffa. Non occorre saper suonare, non servono
i menestrelli e soprattutto non c'è bisogno di assomigliare ai fiori. La nuova
postura, la postura adeguata ai tempi della fine della storia, è quella dello
zombie maleodorante aggrappato al microfono, incerto sulle gambe e con occhi
sgranati che non vedono più nulla (John Lydon docet). Il ballo, da propedeutica
all'estasi dionisiaca, diventa scontro macchinico di corpi sudati che rimbalzano
l'uno contro l'altro sotto il palco come palline da flipper. Da chiavi che
dovevano "lentamente" spalancare le porte dell'immaginazione, droga e alcool
diventano la via più breve che conduce all'apatia. Alla fine del percorso c'è un
ragazzetto che, in attesa di morire, girovaga per il quartiere ebraico di Parigi
con una maglietta con la croce uncinata (Sid Vicious). Non è provocazione, ma
azzeramento del valore di tutti i segni: un'incondizionata e quasi mistica
accettazione dello stato entropico verso il quale precipita ogni esistenza nel
tempo del capitalismo assoluto. Gus Van Sant ha visivamente reso questa
indifferenziazione nel suo bel film sugli ultimi giorni di Kurt Cobain (una
morte che nel tempo della morte del rock nasce già come una citazione di altre
precedenti morti). Kurt si perde nel paesaggio dove vaga, è irriconoscibile,
psicologicamente non caratterizzato, pressoché impercettibile. E' giÃ
letteralmente nulla prima di morire. Un vero punk.
***
Il riff di Pitagora
Non dovendo rispondere ad
istituzioni secolari, a tradizioni consolidate e ad accademie, il rock, tra
tutte le forme espressive, è quella che si può permettere il lusso della veritÃ
nuda e cruda. Non ha bisogno, come le arti figurative, ad esempio, di
nascondersi dietro il dito della "cultura" per mascherare la propria natura di
merce. I filosofi pitagorici sostenevano che i cieli muovendosi secondo un
impeccabile ordine matematico producevano un'armonia sublime che il nostro
orecchio era però incapace di ascoltare. Come sfondo costante della nostra
esistenza, questa armonia non prende infatti il rilievo necessario per essere
tematizzato e, quindi, inteso. Non il movimento dei cieli ma quello anonimo e
impersonale delle merci costituisce lo sfondo delle nostre esistenze. Il rock è
l'eco ancora udibile di questo incessante movimento. Quando non lo si ascolterÃ
più vorrà dire, che com e l'inaudita armonia celeste dei pitagorici, anche la
riduzione di tutta la nostra vita a merce sarà diventata cosa così ovvia e
generalizzata da essere impercettibile.
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