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Omeros

Di: Bookworm | 01/03/2013
Poema di Derek Walcott, pubblicato in Italiano da Adelphi. L’impresa di leggere un poema di 325 pagine scritto nel 1990 può sembrare troppo impegnativa. Ma questo poema ha qualcosa di magico, la poesia, che riesce a mantenere la sua luce per tutta la durata del libro. E’ un racconto con moltissimi livelli, e a seconda del momento, dell’umore, perfino dell’ottimismo che ci accompagna o meno mentre lo leggiamo, possiamo scegliere quali tenere in superficie, e quali affrontare più tardi, a un secondo passaggio. Quello che lega tutti i versi, dall’inizio alla fine, è il suono della risacca, è il merletto della spuma del mare che è il confine aperto che chiude l’isola di Santa Lucia nelle Antille, una perla verde un tempo ricca di aragoste, pesci, foreste, con il suo vulcano e le sue montagne gemelle spesso paragonate, non solo dal poeta, a un seno generoso. Santa Lucia, con il giallo della sua luce, gli azzurri di cielo e mare, il verde delle foreste, la spiaggia bianca e le strade di mille colori, miste di baracche in lamiera e materiali di recupero e della vecchia architettura coloniale in legno, con le balaustre intagliate, e i rampicanti che riparano i portici e mantengono l’ombra all’interno.
Le sue foreste vengono violate immediatamente all’inizio del primo capitolo, quando gli uomini del villaggio salgono insieme al bosco per tagliare gli alberi con cui fare le canoe. E nella fatica di quel lavoro, anche pericoloso, ma anche nel dolore dell’isola e degli alberi, risuona tutto il passato del lavoro fatto dagli schiavi al servizio dei Francesi e poi degli Inglesi, per fortificare l’isola per le guerre coloniali, per trascinare i pesantissimi cannoni in cima alle alture che dominano il porto. Un’isola violata dall’uomo, ma anche uomini violati da altri uomini, civiltà sradicate, trapiantate e modificate per adattarsi all’ambiente, come gli alberi del pane di cui gli schiavi africani si portavano dietro i semi per paura di non sopravvivere senza nel nuovo mondo, e i meli e i gigli che venivano importati dai colonizzatori Europei, anche loro sradicati, diventati pensionati che non possono permettersi di tornare alla loro terra di origine.
Quando le nuove canoe vengono varate, tutto il passato viene sollevato sull’onda dell’entusiasmo del lavoro fatto insieme, del legno che accetta al sua nuova funzione, degli uomini che ora hanno un mezzo per procurarsi il cibo, l’orgoglio di un lavoro ben fatto e un mestiere che li rende fieri. Un pescatore si ferisce lo stinco con una vecchia ancora, e trascinerà la sua ferita infetta per quasi tutto il libro, combattendola in silenzio, disinfettandola e pulendola tutti i giorni, restando lontano dagli altri per non appestarli con l’odore nauseabondo dell’infezione, finché la cura sciamanica dell’antica medicina africana, delle radici che lui non sa nemmeno di avere, riuscirà a purificarlo. Ma quello che si capisce è che l’infezione è l’incapacità di lavorare, è questo che lo porta a nascondersi dagli altri e a rifiutare la loro pietà.
Filo conduttore della poesia è il personaggio di Helen, che intreccia tutti i livelli del racconto. Lei è la bellezza dei Caraibi, la donna ferina e orgogliosa che non accetta di comportarsi da sottoposta quando è cameriera nella casa del maggiore inglese Plunkett e della sua moglie irlandese Maud, che si prova i gioielli di Maud, che le ruba (o si fa regalare?) un meraviglioso vestito giallo, con cui comparirà sempre (meno che quando veste di nero per un funerale) come una farfalla, simbolo colorato della fierezza degli schiavi liberati di razza africana. Non chinerà la testa nemmeno quando, cacciata dal posto di lavoro per insolenza, torna a chiedere un prestito perché è senza lavoro e incinta di un bimbo senza padre. E l’esule Maud, che passa le sue giornate fra la cura dei suoi fiori e l’opera infinita di dare vita nel suo ricamo a uccelli bellissimi su un’enorme copriletto, va a prendere i soldi, ma facendoli pesare come un’elemosina, non un prestito, e quando torna sul portico vede il vestito giallo che si allontana, la testa fieramente eretta e i piedi stanchi sul sentiero.
Helen è anche la donna di Achilles, il pescatore che cerca le radici del suo popolo, le trova, ritrova la forza del suo nome nella lingua d’origine del padre rapito in Africa, e scopre che le anime di tutti loro, nati nell’isola da quelle radici, torneranno dopo la morte al villaggio di origine sulle sponde del fiume Congo. A lei quel passato non interessa, vuole i suoni del reggae e della civiltà moderna senza radici, quindi lascia Achilles per Hector, che ha venduto la sua canoa per acquistare un minibus con i sedili coperti di finta pelle di leopardo con cui traghetta i turisti dall’aeroporto. Helen è simbolo dell’isola, dell’amore, della femminilità voluttuosa e di quella materna, per il poeta caribico che ne canta la storia, dopo aver girato tutto il mondo per tornare alla realtà dell’isola che racchiude ogni cosa nel cerchio di merletto della spuma sulle sue coste.
Oltre alla gialla, selvaggia e inafferrabile farfalla Helen, un’altra creatura cuce con il suo volo i versi del poema: il rondone, che compare con il suo breve richiamo accompagnando le barche dei pescatori, che arriva stremato alla spiaggia dopo un volo solitario e ininterrotto di settimane dalle coste africane, come quelle onde che si infrangono finalmente sulla costa di Santa Lucia dopo essere partite, senza mai trovare ostacoli, dal mare davanti a Dakar. Il rondone guida i pescatori quando si allontanano troppo dalla costa, fino a perderla di vista, perché la pesca industriale ha spopolato di pesci i fondali dell’isola, e guida le loro anime fino al villaggio sul fiume Congo per ritrovare la storia dei loro padri. E il rondone, a differenza del poeta, ha la costanza e la saggezza della storia e del sangue, ma è quasi muto.

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