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THE MASTER

Di: Marcello Berlich | 10/01/2013
Stati Uniti, secondo dopoguerra. Freddie (Joaquin Phoenix) è un reduce, uscito dall'esperienza bellica fiaccato nel corpo e, sopratutto, nella mente. Tenta, senza successo, di costruirsi una 'vita normale', finendo per diventare schiavo dell'alcol per poi incontrare, fortuitamente, Lancaster Dodd (Philip Seymur Hoffman), uno strano personaggio, mezzo scienziato e mezzo santone, un imbonitore che grazie al suo carisma ha messo su un'organizzazione pseudoreligiosa.
Inizialmente un semplice simpatizzante, in seguito Freddie intraprenderà il 'cammino' per diventare un vero e proprio adepto, ma il rapporto trai due ha ormai assunto dei connotati diversi, legando i protagonisti in una sorta di dipendenza reciproca...
Ammetto che conclusa la visione di The Master mi sono sentito stupido, come ogni volta in cui uno va a vedere un film pluripremiato, osannato dalla critica, lanciato dagli spot con espressioni magniloquenti, e poi, durante la visione, si chiede dove sia tutto ciò che gli era stato promesso.
Riflettendoci sopra, si possono anche arrivare a comprendere i motivi per cui questo film e le interpretazioni dei protagonisti hanno fatto urlare in tanti al miracolo; le si può comprendere ma (almeno per quanto mi riguarda) per nulla condividere.
In effetti, il film propone il classico 'catalogo' di elementi che in genere portano la critica a gridare al capolavoro: i tempi 'dilatati'; il lasciare spazio al 'non detto'; le interpretazioni 'memorabili' degli attori... il problema è che se la dilatazione diventa lentezza esasperante, se il 'gioco' del 'detto / non detto' diventa manieristico e si risolve sostanzialmente in una poca comprensibilità del messaggio di fondo, se le interpretazioni degli attori assumono ben presto un che di 'calligrafico', corredato dalla fastidiosa impressione di un certo autocompiacimento, beh, allora... altro che capolavoro e anzi ci si pongono le solite domande sull'affidabilità delle giurie, dei Premi, delle critiche.
Visivamente, certo, non si può dire sia un brutto film: luci e colori sono ineccepibili, ma tutto questo non basta a salvare una storia che parte da un personaggio più che mai stereotipato (il soldato traumatizzato) e prosegue nel raccontare una vicenda i cui contorni non sono esattamente 'nuovi' (un rapporto tra due persone che prende una piega inaspettata); sul messaggio di fondo, si resta dubbiosi: da una parte Freddie che, forse perché già dipendente dall'alcol, fatica a entrare nei meccanismi della setta, poi provando effettivamente a diventarne adepto; dall'altra Lancaster, che finisce per essere 'attaccato' realmente alla sola 'causa persa' della sua vita professionale: un concetto anche in questo caso non proprio originale, la cui novità è forse l'applicazione al contesto delle 'sette'. A questo proposito, va ricordato come il film sia stato in parte visto come un atto di accusa contro Scientology e le varie religioni 'faidate', ma anche in questo caso, pur mostrando alcuni retroscena della 'vita' di queste organizzazioni (inclusa un'inutile sequenza dominata da nudi femminili messi lì anche abbastanza 'gratuitamente'), l'essere un 'atto di accusa' non è certo l'obbiettivo principale del film... anzi, a un certo punto uno pensa pure: purché finisca presto, m'iscrivo a Scientology.
Battute a parte, i dubbi sul 'cosa il regista abbia voluto dire' restano per questo suo poco riuscito giostrare tra l'esplicito e l'ellissi, che finisce per indebolire il tutto.
Le interpretazioni di Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffmann hanno conquistato lodi sperticate ma, specie pensando ai trascorsi dei due, si ha l'impressione di trovarsi quasi di fronte ad esercizi di stile: il deperito e nevrotico Phoenix contro il placido e 'sovrabbondante' Seymour Hoffman, entrambi all'insegna di gesti ed espressioni fin troppo marcati: ben altro era stato il livello raggiunto da Phoenix nella sua interpretazione di Johnny Cash o da Seymour Hoffman in Onora il padre e la madre, per citarne solo due. Accanto a loro due, merita se non altro una citazione Amy Adams nel ruolo della moglie di Dodd, che cerca di ritagliarsi faticosamente uno spazio, avendo peraltro a che fare con un personaggio la cui definizione va poco oltre l'abbozzo di una donna che ormai col consorte non condivide altro se non la 'dedizione' alla causa e che cerca disperatamente di stabilire un contatto 'umano' nella memorabile e trashissima sequenza di una masturbazione.
L'impressione è di trovarsi davanti a un film in una certa misura 'predestinato' , del quale fin dall'inizio - visti anche i nomi coinvolti - non si potesse fare altro che parlar bene, al di là di meriti reali che appaiono essere stati in gran parte sopravvalutati; probabilmente la messe di premi raccolti proseguirà con Oscar e Golden Globe; chi scrive, non ne è stato per nulla coinvolto. A ogni buon conto, se voleste provarne la visione, portatevi appresso un cuscino e magari un plaid.

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