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Di tutte le ricchezze

Di: Bookworm | 23/10/2012
Stefano Benni, Feltrinelli 2012, € 16,00
Stefano Benni non si smentisce, un suo libro si prende su in fila dal dentista, in treno, a letto con la febbre, pensando di passare così una mezz’ora, e non si riesce a metterlo giù finché non si è finito. In quanto poi a uscirne, a chiuderlo e metterlo su uno scaffale nel nostro cervello, quello non ci si riesce mai, resta sempre qualche pagina volante, un’immagine, una considerazione, un’atmosfera, che sfugge dalla copertina e ci si annida dentro; di solito è un nuovo modo di guardare qualcosa, un “perbacco, non ci avevo mai pensato!” che mette radici da qualche parte fra lo stomaco e il fegato, e per il resto della vita cambia il nostro modo di affrontare, e soprattutto di giudicare, quella cosa.
A partire dalla feroce oscurità di Achille piè veloce, Benni non è più uno scrittore comico; e da quest’ultimo libro non è più nemmeno rabbioso. E’andato oltre le battute feroci, i ritratti al vetriolo che facevano male alle viscere anche mentre si rideva irresistibilmente. Come sempre, è avanti. In un mondo in cui la rabbia permea ogni cosa, dalla rabbia giusta e profonda degli operai alla fine della cassa integrazione alla rabbia superficiale e giustificativa di ogni genere di Vip in radio e televisione, la rabbia non è più il carburante per un motore di ribellione e rivincita, ma è l’eccesso di grasso che blocca tutti i meccanismi di pensiero libero, rinnovamento e rinascita; e non sappiamo come uscirne. E allora questo libro la lascia andare, e riparte dalla paura, la paura che la rabbia serve a nascondere. La paura di restare soli, di essere soli, soprattutto di invecchiare soli, una paura grande e profonda in una società che ha abbattuto i vecchi schemi della famiglia, i quali, per quanto soffocanti, davano un riparo sicuro ai vecchi, ai piccoli e agli infermi. Il protagonista è un professore in pensione, quasi vecchio ma ancora abbastanza giovane da voler recitare la parte del vecchio, che abita con il suo cane Ombra in una casa sperduta, ma non troppo, sull’Appennino, senza una compagna, con un figlio musicista che abita negli Stati Uniti e con cui comunica via e-mail e cellulare; ha accettato la tecnologia come una necessità di cui diffida senza chiudersi in uno snobistico rifiuto (“Tra i miei titoli nobiliari scarseggia la @, l’Ordine della sacra Chiocciola”). Il professore è un’autorità su un poeta locale, il Catena, morto pazzo in manicomio negli anni trenta del secolo scorso, e della cui vita e opera lui ha rintracciato i pochi documenti superstiti; scrive ancora saggi, ed anche poesie, di cui il libro è disseminato; anche questa sua attività di studioso e creativo viene presentata con la solita garbata ironia (già, in questo libro l’ironia di Benni è scopertamente garbata, svestita della ferocia con cui la colorava in passato), già in una delle prime poesie:
“Maudit l’amour/ che da queste stanze è escluso
Scrisse un poeta sul muro della cella
Ove tutta la vita fu rinchiuso
E il suo tormento divenne il mio argomento” Gli animali selvatici e non dell’Appennino sono i suoi confidenti, parla con loro e loro gli regalano le loro diverse piccole grandi saggezze. Ma un giorno la casa di fronte viene acquistata da una coppia di giovani artisti, lui pittore e lei attrice e ballerina, e il delicato equilibrio della solitudine del professore viene infranto dai loro sogni, desideri, frustrazioni, dalla loro giovane fretta di fare, dalla bellezza di lei e dai ricordi della sua vita passata che il professore proietta su di loro. Un libro che è anche una poesia, che si apre con una considerazione di una delle prime pagine: “Come vivo la solitudine? A volte con benevola pazienza, a volte con dolore. Passeggio lento, cucino male, scrivo con cura, dormo poco, penso molto”, e potrebbe chiudersi con la stessa considerazione, solo molto più ricca di dolore, gioia, e vita. In questa frase, tra l’altro, è racchiuso secondo me uno dei massimi segreti della scrittura di Benni, un segreto difficile da tramandare, ma quanto ricco e prezioso: “Scrivo con cura.” E si sente, anzi si legge, in ogni riga.

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