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Let's Go Eat the Factory

Di: Chiara Colli | 04/02/2012
Come si dice in questi casi, ci sono una notizia buona ed una cattiva. La buona è Let’s Go Eat the Factory, un album in puro stile GBV. La cattiva, ormai nota, è che il quintetto di Dayton ha infranto i sogni di chi già pregustava la visione della line up classica in qualche festival europeo, annullando i due appuntamenti live previsti per i prossimi mesi (Primavera Sound ed ATP). Quello che rincuora è che, al contrario delle voci circolate a dicembre, i motivi siano di natura personale e non legati ad una nuova rottura del gruppo. Del resto, è proprio dalle good vibes generate dal tour del 2010 con la formazione assunta come “classica” - quella di Bee Thousand, per intenderci, sciolta dal capobanda Robert Pollard nel 1996 e spesso rimaneggiata - che ha preso forma il ritorno, anche in studio, della band più infedele dei 90s americani. “In studio” si fa per dire, in quanto l’immagine a cui le 21 tracce di Let’s Go Eat the Factory riportano è quella di Pollard, Mitchell, Fennel, Sprout e Demos che bighellonano amabilmente nel garage incasinato di uno dei cinque, tirando fuori caramelle di instant-lo-fi-pop da mordere e consumare in due minuti. Come ai vecchi tempi? Nel risultato, certamente si.
Non manca la deliziosa dispersività di Pollard, mente iper-prolifica capace di acciuffare l’attenzione dell’ascoltatore noiser raschiando a suon di feedback nella sua memoria fin da "Laundy and Lasers", per poi cullarlo nella melodia soffice di "Doughnut for a Snowman" o divertirlo con la giocosità degli Yo La Tengo più scanzonati in numerose occasioni, a partire da "The Unsinkable Fats Domino". Ma attenzione. Perché, stavolta, il ritorno al sapore inconfondibile della bassa fedeltà dei golden years, è da attribuirsi anche allo zampino di Sprout, autore, ad esempio, del beat elettrico e circospetto di "Spiderfighter". Un ritorno che non è il recupero di una tradizione consumata, ma la capacità di rinnovarsi tipica di chi quell’attitudine (collegiale) ce l’ha dentro. L’esempio è "Chocolate Boy": uno dei (tanti) brani che nessun sedicente indie degli anni zero riuscirà mai a scrivere.

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