Smoke Ring For My Hale

Per quelli che non amano il sole, i racchettoni e la vita da spiaggia. Per quelli che l'estate la passano in città e la luce è solo quella del mattino o del tramonto. Per quelli che amano bassa fedeltà e musica indipendente, ma l'anno scorso non hanno fatto comunque scorpacciate di Wavves (e il loro "King of the Beach") o Best Coast (con l’estivissimo "Crazy for You"). Un album, in effetti, uscito lo scorso marzo, tra inverno e primavera. Un album che, personalmente, arriverà nella top 5 di fine anno, nonostante l'hype che ne ha avvolto l'uscita, minando la bontà del suo effettivo contenuto.
Trentuno anni, di Philadelphia, iniziato alla musica con un banjo regalatogli dal padre - ascoltatore incallito di bluegrass -, Kurt Vile non è un nome nuovo nella scena indie d'oltreoceano, ma il suo ultimo "Smoke Ring for My Halo" è stato il passepartout per accedere definitivamente al cuore dei più scettici e conquistare qualche nuovo ascoltatore meno lo-fi. Secondo album per Matador Records (già una garanzia), primo registrato in un vero studio, il quarto lp di Vile non scioglie il legame con la tradizione di cantautori americani strettamente legati alla sei corde - acustica ed elettrica - da John Fahey a Tom Petty passando per Bob Seger, ma costruisce un immaginario personale, intimo, metropolitano eppure al contempo sfumato di passaggi folk ("Jesus Fever") ed aperture delicatamente sintetiche vicine alla new wave ("Society Is My Friend").
Una schiera di nomi celebri, quelli dichiaratamente fan del "Prodigio Infantile" - Sonic Youth, Panda Bear e Dinosaur Jr - che, non a caso, hanno portato Vile in tour, negli States, con Thurston Moore e J Mascis. Merito di un album dalle atmosfere liquide ("Runner Ups"), dall’impeccabile groove elettrico ("Puppet to the Man") e dagli arpeggi armonici e soffici ("Peeping Tomboy"). Un album crepuscolare. Ma da ascoltare tutto il giorno. E tutto l’anno.