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Yuck

Di: Chiara Colli | 26/03/2011
Non stentiamo certo a credere che l'ascolto dei Pavement, per la prima volta tre anni fa, fu come un'illuminazione per Daniel Blumberg. La voce e chitarra del giovane quartetto (quintetto, considerando la partecipazione occasionale di Ilana Blumberg) londinese ha poco più di vent'anni e non è esattamente il tipo di musicista cresciuto a pane ed indie anni 80 e 90 che, appena imbracciata una chitarra, non può che farne uscire dello pseudo college rock. Che sia merito del ritorno su scala mondiale della bassa fedeltà indipendente (indie lo-fi?) nata a cavallo di quei due decenni, o di una sterzata personale dopo l'esperienza brit pop con i Cajun Dance Party (in cui suonavano Daniel Blumberg ed il chitarrista Max Bloom) non ci è dato saperlo. E personalmente, anche la lista di nomi di cui l'esordio - omonimo ed autoprodotto - degli Yuck è chiaramente figlio, assume un ruolo marginale, vista la ben riuscita dell'album. Ebbene si: Dinosaur Jr, Yo La Tengo, Pavement, ma anche qualcosa dei Teenage Fanclub e un pizzico di Creation Records più rumorosa (The Jesus and Mary Chain).
Pagato pegno - con sommo piacere - ad alcuni dei nomi a cui la scena noise-pop-indie-garage-lo-fi (e chi più ne ha...) deve molto, la compiutezza e buona sostanza di questo album trascende i padri spirituali ed il buzz innescato da mesi dalla stampa musicale indipendente, da un lato e l'altro dell'oceano. Testi (d'amore e giovinezza) di certo non ermetici, melodie effervescenti, luminose, distorte, urgenti, evocative di quei teen years che sembrano mai passare. Ed accattivanti, sì, ma con un'anima propria, sebbene all'apparenza "semplicemente" nostalgiche di un'era passata. Brani come "Get Away", "Holing Out", "The Wall", "Operation" (echi anche di Sonic Youth in quest'ultima), sono carta vetrata che gratta con cristalli di zucchero ricordi di pomeriggi (rigotrosamente, estivi) assolati. Non mancano neanche episodi acustici e liquidi ("Suicide Policeman" e "Stutter"), malinconie e sogni sbiaditi da Fanclub adolescenziali ("Shook Down"), e addirittura la chiusura delicatamente (e dilatatamente) rumorista di "Rubber", che lascia spazio a chissà quali ambizioni future. Un album eterogeneo, una caramella che non perde il sapore. E per questo, da masticare, a intervalli regolari, per tutto l'anno.

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