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Halcyon Digest

Di: Chiara Colli | 16/10/2010
Bradford Cox è un tipo un po' speciale. Iper prolifico, iper sensibile, ombroso sui dischi, solare sul palco, così magro eppure così ricco di energie. È la sindrome di Marfan a renderlo così incredibilmente esile. Una malattia che più che influire oggi, ha determinato un'adolescenza piena di solitudine, nostalgia e, diciamolo pure, disagio. Oggi ventottenne, la mente dei Deerhunter - nonché del suo, altrettanto meraviglioso ma meno "stratificato", progetto solista Atlas Sound - ha cominciato ad ascoltare e comporre musica fin da piccolissimo, seguendo un po' il copione classico di molti artisti poi divenuti grandi, ma dietro cui si nasconde un passato di profonda sofferenza. Da Atlanta, Georgia come gli amici Black Lips - per i quali ha suonato nel secondo album -, agli esordi, nel 2001, Bradford Cox, insieme al batterista Moses Archuleta, diceva di voler "fondere la dimensione ipnotica e onirica di certa musica minimalista ed ambient con l'energia propulsiva del garage rock": una dichiarazione d'intenti in effetti portata a termine, soprattutto in un'ottica in cui "ambient" e "garage rock" siano intesi più come approccio che come genere specifico.
Un'attitudine ambiziosa, mai scontata, dall'anima fanciullesca ma continuamente avvolta nei fantasmi e nelle paure più profonde di Cox, fedele al lo-fi ma altrettanto attenta agli intrecci delle due chitarre, marchio di fabbrica dal piglio rigorosamente ossessivo della band. Una psichedelia moderna, urbana senza essere acida, stratificata, molto suonata, liquida, colta senza essere derivativa. Sono le prerogative rintracciabili in tutti e quattro i precedenti album del quartetto georgiano e, per certi versi, valide anche per questo quinto Halcyon Digest, non più legato alla sperimentale indie label Kranky, ma totalmente affiliato a 4AD. Halcyon Digest, però, è un album più pop, accessibile e solare, dei precedenti, sebbene questa maggior fruibilità non sia mai sinonimo di scontatezza o soluzione facile. Si amplia lo spettro degli strumenti usati, l'armonica, il banjo, il sax; si apre a climax, più classici che disturbati come un tempo (Desire Lines, uno dei due pezzi firmati dal chitarrista Lockett Pundt), al beat e a sonorità ballabili vagamente fifties (l'irresistibile e un po' Strokesiana Coronado), a luminosità Beatlesiane (Don't Cry, Revival) e a un garage pop delicato (Memory Boy). Ma in apertura e chiusura, rimangono le ombre, ovviamente senza accezione negativa, dei Deerhunter più noti: gli accumuli eterei di Earthquake e la nostalgica ode elettro-cristallina, dedicata all'amico Jay Reatard, He Would Have Laughed. Nel mezzo, una nuotata negli abissi più profondi della band, con Helicopter.
Halcyon Digest segna un cambiamento non radicale, una variazione su tema della psichedelia-pop-lo fi di casa Deerhunter. Una concessione al pop che non sminuisce la musica, ma le da un'altra tonalità, rassicurando le orecchie spesso refrattarie ad un addolcimento, alle concessioni alla musica più luminosa, che una via alternativa all'ossessione e, all'opposto, all'accessibilità a tutti i costi, esiste, ed è anche molto godibile. Non un compromesso. Non un bagliore accecante. Ma quella luce piacevole e non intrusiva che hanno solo le migliori ore del giorno.

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