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Mines

Di: Gianluca Diana | 06/10/2010
Una delle cose che fa del rock una creatura viva e vegeta, altro che morta ed incenerita, è la sua incommensurabile attitudine a rinascere. Come si mantenga è noto a tutte e tutti. Primo: l'esaltazione delle capacità dei nuovi musicisti a suonare in modo empatico. Ad avere feeling, come si diceva un tempo. Secondo: la predisposizione a meticciarsi. A sporcarsi le mani, ad immergersi in suoni altri e renderli propri. Ipso facto. Certo, non sono i primi neanche in questo, ma gli va dato atto del coraggio. E del risultato. Da Portland, Oregon, i tre bislacchi e davvero talentuosi Menomena: Justin Harris, Brent Knopf e Danny Seim. Uniscono ad una attitudine da multistrumentisti [particolarità da cui arriva buona parte delle complessità sonora che li caratterizza] una invereconda curiosità per tanto altro. E quindi cinque pubblicazioni in un crescendo entusiasmante, con l'ultima “Mines” pubblicata dalla Barsuk Records di Seattle. Dieci brani in cui, attraverso una chiave indie rock modello Seattle-Portland, trovate tutto. Lirismo e fervore che sanno di nord Europa [“Intil”] e di scantinato a Manhattan [“Taos”], incursioni nevrotiche da rock strumentale su un pianoforte degno di un jazz club [“Killemall], stilettate al cuore da folle oceaniche con le mani alzate a battere il tempo [“Dirty Cartoons”]. Tra sassofoni baritoni slabbrati e sporchi e chitarre post grunge & post stoner, spuntano di tanto in tanto ritmiche funk ed evocazioni di jam-band stile Phish. Il tutto scrivendo e suonando melodie. Probabilmente a Zappa sarebbero andati a genio. Acme in “Tithe” e “Bote”. Brano manifesto: “Five Little Rooms”. Un disco da urlo, uno di quelli che resta e non passa. Fantastici.

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