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Forgiveness Rock Record

Di: Chiara Colli | 18/09/2010
Cinque anni dall'ultimo album. Sette, da quel You Forgot It in People che cambiò il corso dell'indie rock (di matrice pitchforkiana) degli anni zero. Il collettivo aperto per definizione che poggia (soprattutto) sulle menti di Brendan Canning e Kevin Drew, è tornato a maggio con il suo quarto album. "È giunto il momento di perdonare tutti. I tuoi nemici, i tuoi familiari, chi ti sta accanto, quelli che provocano le guerre e la fame nel mondo. Si deve perdonare chiunque. Adesso. Solo così si può rinascere". Così Canning spiegava tempo fa il titolo dell'ultimo album dei Broken Social Scene, uscito - come sempre - per Arts and Craft, etichetta fondata dalla band. Un lavoro in studio che, ancora una volta, tenta, nonostante tutto, di trovare qualcosa di positivo e ottimista nel caos globale del terzo millennio. E che, ancora una volta, si è avvalso di una quantità significativa di "supporti esterni", musicisti disparati che gravitano attorno al sestetto base. Feist, Metric, Spiral Stairs dei Pavement, Doug McCombs dei Tortoise e Sebastian Graigner dei Death From Above 1979, solo per fare i nomi più celebri.
La weltanschauung è la solita: mente aperta e mai porsi limiti, di alcun tipo. Registrato a Chicago con la produzione, compattissima, di John McEntire, Forgiveness Rock Record mostra il volto più pop ed elettronico del collettivo canadese, che non abbandona il debole per una certa orchestrazione - sorta di coralità simbiotica e liquidissima degli strumenti - senza limitarsi ad un possente apporto degli standard rock, ma lasciandosi spesso avvolgere da armoniose stratificazioni di archi e fiati. Tastiere e chitarre dall'incedere epico (World Sick, Forced to Love), si alternano a riferimenti vagamente elettro-disco (Chase the Scene), a rimandi al soul anni '70 (Art House Director) e a numerose cavalcate strumentali, che risentono delle esperienze della band come compositori per colonne sonore. Un album variegato, ottimista, dai contorni più definiti rispetto agli album precedenti, che mantiene il marchio di fabbrica BSS ma che afferma, delicatamente, la volontà di non limitarsi ad un canone specifico (l'indie rock inteso come genere strettamente chitarristico). Un album, proprio per questo, forse meno apprezzato dai fedelissimi della prima ora. Ma che sul palco, più che mai, ribadisce quanto la chiusura - in una formazione standard o nella definizione di un genere -.sia una questione puramente formale. E sostanzialmente inutile, ai fini dell'elargizione di sincere Good Vibrations.

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