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Primary Colours

Di: Chiara Colli | 24/04/2010
Qualcosa è cambiato. Anzi parecchio, è cambiato, rispetto agli Horrors di "Strange House" (Loog/Universal 2007). Look (un po') diverso, maggiore sicurezza sul palco, nuova squadra di lavoro alle spalle, tutta un'altra musica e - dal vivo - un cospicuo pubblico vagamente in delirio, ai limiti del fenomeno socio culturale. Sembrano piuttosto lontani i tempi dell'esordio, del garage psychobilly, delle cover dei Sonics, del trucco e delle performance poco convinte. Con "Primary Colours" non solo è cambiata etichetta (l'ambita XL Recordings), si è passati dalla produzione Fuzztonesiana dello Yeah Yeah Yeahs Nick Zinner a quella decisamente più fashioned del trio Geoff Barrow (Portishead) - Craig Silvey - Chris Cunningam ma, soprattutto, sono cambiati i riferimenti musicali.
Un album più maturo e (apparentemente) più personale, quasi diabolico nel mescolare Spaceman 3 e Jesus and Mary Chain a new wave e visioni kraute, mescolando abilmente le carte ed offrendo un gioco accessibile (a quanto pare) per molti brand-new-fan. Dal garage horrorifico ai droni psichedelici, insomma, con un sensibile miglioramento della performance vocale di Faris Badwan, anche dal vivo (lo abbiamo visto al Circolo degli Artisti di Roma qualche mese fa), cupo e baritonale come non mai. Sono giovanissimi e con capigliature poco credibili, eppure c'è qualcosa - forse perché non ne scorgiamo i visi sbarbati o forse perché sono semplicemente bravi - che rende la loro presenza scenica più corposa di molte (più o meno) indie band.
È un inizio d'album tremendamente dark wave, quello di "Mirror's Image", che prosegue con i droni visionari di "Three Decades" ed esplode su "Who Can Say", attacco noisy alla My Bloody Valentine e giudizioso bilanciamento nel gioco delle parti, senza eccedere in freddezza (come vorrebbe lo stile Shields) ma, piuttosto, tendendo ad una maggiore "compiacenza". Su pezzi come "Scarlet Fields" si intuisce perché i cinque dell'east England hanno fatto centro: un bel mix di influenze, sì, ma con la componente rumore mai predominante su quella wave e una capacità di incastrare le melodie nel punto perfetto in cui s'incontrano le paranoie da cameretta e i cori da stadio. Di chiunque sia il merito, diabolici. Mentre il "Suono della Confusione" fa eco in "I Can't Control Myself", la titletrack è decisamente una versione stratificata di influenze new wave e "New Ice Age" fa un po' di esercizio di stile tra tutte le citazioni (più o meno) colte di cui sopra, affidando ad un'apocalisse distorta, il compito di tirare le fila. Album interessante ma, con tutta probabilità, non esattamente primario.

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