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Who Killed Sgt. Pepper?

Di: Chiara Colli | 25/02/2010
Aspettavamo da tempo questo momento. Perchè anche se "Who Killed Sgt. Pepper?" gira (illegalmente) già da un paio di mesi nel mio i pod, in realtà la fatidica data d'uscita dell'ultimo lavoro dello strano genio che fa capo al nome di Anton Newcombe, è - dopo un'iniziale posticipazione - ufficialmente passata solo da un paio di giorni. Uno degli album che si candida già ad essere quello dell'anno. E non solo perchè chi scrive è vagamente di parte. Ma anche perchè - in ambito di psichedelia, spesso sperimentale ed ogni volta ibridata con generi diversi (che sia kraut, british invasion o post punk) - lo strambo personaggio californiano, unico vero responsabile della direzione artistica della band, non ha moti rivali. Quello dei BJM è un combo aperto, dove sono passati circa 40 musicisti diversi, che conta undici album all'attivo, una carriera ormai ventennale ed una dichiarazione di intenti già nel nome, con un tributo ad una figura non solo leggendaria (e non in senso lato) della storia del rock, ma anche tra le prime capace di guardare alle culture orientali ed introdurle nella popular music occidentale.
Pazzo, eccessivo, eroinomane, dittatoriale, prolifico ed imprevedibile. Anton Newcombe è uno di quei personaggi che potresti odiare, beccandolo, ad esempio, in una serata no ad un concerto. Eppure a lui, come a pochi altri, si può anche concedere di fare fuori il Sergente Pepe. E tutta la psichedelia più "pura" e classica che, con il solito sarcasmo, campeggia, sacrificata, in copertina. Registrato tra l'Islanda e Berlino, l'undicesimo lavoro in studio dei BJM annovera ospiti illustri come Will Carruthers (ex Spacemen 3) al basso, la ventottenne cantante isolana Unnur Andrea Einarsdottir e, soprattutto, il ritorno del chitarrista Matt Hollywood, co-fondatore della band assieme a Newcombe. Allucinato, visionario e disorientante, "Who Killed Sgt. Pepper?" sporca cavalcate acide con tribalismi selvaggi, innesti quasi trance ed industriali, vicini al lato più metallico del post-punk. 13th Floor Elevators profanati coi Chrome e resi ballabili. Reintempretazioni dei Joy Division ("This Is the One Thing We Did Not Want to Have Happen" è l'omaggio da brividi a "She's Lost Control") e danze raga robotiche. La terra dei crucchi che incontra la spiritualità orientale e che confonde, mentre un ritmo marziale impedisce alle gambe di star ferme. C'è un grande miscuglio, di quelli che sulla carta farebbero storcere il naso. Eppure l'ossessività di "Tunger Hnifur", il nonsense filo-russo di "Dekta!Dekta!Dekta!" e la paranoia electro-metropolitana di "This Is The First of Your Last Warning" trascinano, senza via d'uscita, nella visione - piuttosto malata, mediamente soffocante ed acidamente groovie – di Mr Newcombe. Lets Go Fucking Mental!

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