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Post-Nothing

Di: Chiara Colli | 21/01/2010
Ascoltare un album a ripetizione è prassi tipicamente adolescenziale. Tristi, di buon umore, incazzati o indolenti: quel disco sembra perfetto per ogni mood. Quasi terapeutico. Praticamente una droga, da iniettarsi giornalmente finchè non si è raggiunta la dose consigliata. Dopo anni, a sorpresa, il 2009 ha portato – almeno per chi scrive - 8 tracce proprio di questo tipo. Un album, ancora una volta, da top 5 (e siamo a 3). Da ascoltare dopo la tempesta, oppure un attimo prima. Da appiccicare alle giornate, alle facce, ai pensieri, e farlo proprio. Un album da imparare a memoria. Per poi strillarlo tutto a un concerto. E dimenticare, per un po’, la buona usanza di non fissarsi (troppo) sugli stessi dischi.
Il titolo - ironico, profetico o giocosamente casuale - la dice lunga: “Post Nothing”. Loro sono Brian King e David Prowse, due facce da bravi ragazzi, almeno in copertina. Sono i Japandroids da Vancouver, garage punk (in senso lato) chiaramente lo-fi, piacevolmente rumoroso e sorprendentemente emo (il primo emo, ovviamente... se mai ce ne fosse stato un secondo). Fingendo di non aver letto l’8.3 di Pitchfork, le quattro stelle di allmusic e gli chapeau vari sulle più disparate riviste di musica, eccoci con l'(ennesima) ovazione per quello che, probabilmente, è il mio miglior disco del 2009. Accostati ai californiani caciaroni No Age e ai più ottantosi Wavves, i Japandroids infilano otto canzoni una meglio dell’altra. Melodie su pochi accordi, semplici, sicuramemente già sentiti qua e là, eppure così tremendamente, quasi sentimentalmente, speciali. Ruvidi, batteria e chitarra picchiati con foga punk e un orizzonte immaginario tra degli Amusement Parks on Fire più noise, gli Hüsker Du di “Warehouse” più riottosi e la teenage angst dei primi Smashing Pumpkins.
Difficile scegliere un brano preferito. Malinconia, spensieratezza, nuvole di rumore leggere attraversate da raggi di sole non troppo caldi (quindi i migliori), come in un tramonto perenne, avvolgono “The Boys Are Leaving Town”, “Wet Hair” e “Crazy/Forever”. Velleità più terrene, sarà il drumming possente, forse il vino trangugiato o la voglia di andare via, con “Young Hearts Spark Fire”, “Heart Sweats” e “Sovereignity”. Addirittura una ballata in chiusura, con falsetto e semi-dichiarazione d'amore (perduto, ovviamente), dopo tutte le manifestazioni di apprezzamento varie a ragazze senza nome, che siano francesi o dai capelli bagnati. Se il packaging all black appaga la vista, i contenuti sonori fanno bene al cuore (non solo dei teen-agers, a quanto pare). Forse però, ascoltare Japandroids tre volte al dì, può avere la controindicazione di rendere un tantino emo...

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