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Popular Songs

Di: Chiara Colli | 05/01/2010
Con questa (bella) recensione inizia a collaborare con RRTO Chiara Colli, giornalista free-lance. Aspettatevi recensioni, articoli, interviste live e tanto altro ancora. Si sa, l'appetito vien mangiando... Benvenuta, Chiara!

YO LA TENGO – POPULAR SONGS
Venticinque anni di carriera, una grande passione per il baseball e uno status unanimemente riconosciuto di istituzione dell’indie rock americano, gli Yo La Tengo arrivano in forma smagliante al loro dodicesimo album (il settimo con la Matador, EP e raccolte escluse) stupendoci ancora, se possibile, per un’inossidabile longevità e per la capacità di tirare fuori lavori incredibilmente ricchi di idee.
Che si prendano in giro o no, il titolo “canzoni popular” (dio ci scampi la traduzione fuorviante di “popolare”) rende bene l’idea di un disco, sì accessibile, ma con una classe e una classicità propria di una band ormai maestra nell’innovare l’alt.rock curiosando nel baule del passato.

Sarà la persistente attitudine sperimentale, il rifiuto di ogni intellettualismo, il coraggio bilanciato alla sapienza compositiva, quel nonsoché di psichedelico che aleggia intorno al trio del New Jersey da quando venivano accostati ai Velvet Underground, qualsiasi cosa sia, gli Yo La Tengo hanno tirato fuori un altro gran disco: (personalmente) da Top 5 del 2009.
Ritagli sparsi di anni ’60, di noise, di folk, di chitarre fuzzate o distorte; archi, rumore e (più o meno) lunghe cavalcate con riff ripetuti ad oltranza: gli ingredienti più disparati si mescolano, creando paesaggi continuamente diversi che fanno da sfondo ad un viaggio idealmente diviso in due parti.
Una prima più canonicamente alt.rock: ballabile, con liquidità sintetiche (“Here to Fall”), pop chiccoso (“Avalon or Someone Very Similar”, “If It’s True”), shoegaze-boogie (“Nothing to Hide”), organetto in salsa funky (“Periodically Double or Triple”), apparizioni notturne (“By Two’s”) e una punta di malinconia (“When It’s Dark”).
La seconda, con tre brani la cui durata corrisponde, in totale, al resto dell’album, e che definisce il lato più unpopular di Ira Kaplan, Georgia Hubley e James McNew. Sovrapposizioni di chitarra lente ed ipnotiche (“More Stars Than There Are in Heaven”), sfumature ambient in stile soundtrack (“The Fireside”) e un meraviglioso epilogo noise di oltre 15 minuti (“And The Glitter Is Gone”).
“I’m not Afraid of You and I Will Beat Your Ass”: lo dicevano tre anni fa e, probabilmente, sarà vero per sempre.

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