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ALMANYA - La mia famiglia va in Germania

Di: il Bisbigliatore | 30/01/2012
Qualche mese fa, partecipando alla realizzazione di un film, che racconta una storia di italiani emigrati nella Germania d’inizio anni ‘60 in cerca di lavoro, riflettevo sulla condizione di tante persone che, dopo la tragedia della guerra, furono costrette ad abbandonare la loro terra natia, la casa, gli affetti più cari, con l’obiettivo di trovare un’occupazione che garantisse almeno una speranza di sopravvivenza a loro stessi e alle rispettive famiglie. Un autentico sacrificio per quell’epoca, certamente più grande e doloroso di quanto non possa apparire oggi, nell’era dell’abbattimento delle frontiere e della globalizzazione economica e culturale.
Yasemin Samdereli, attrice, sceneggiatrice e regista tedesca nata a Dortmund ma di etnia Zaza (popolo dell’Anatolia orientale), affronta lo stesso tema dell’emigrazione usando come base di partenza la Turchia, un'altra terra che, in quegli anni, fornì moltissima mano d’opera alle fabbriche tedesche in piena accelerazione produttiva dopo il precedente decennio speso nella ricostruzione.
Al centro della vicenda c’è un’intera famiglia turca che vive in Germania da oltre quarant’anni, da quando l’allora giovane capo famiglia vi si trasferì raccogliendo, insieme a molti altri, l’invito del governo tedesco rivolto a tutti i cittadini dell’Europa meridionale che volevano migliorare le proprie prospettive di esistenza, sia pure al prezzo di un faticoso e traumatico trasferimento. Al nucleo originario, formato dall’ormai anziano patriarca, dalla moglie e dai primi tre figli, adesso adulti di mezza età, si sono aggiunti un altro figlio nato in Germania, la sua giovane consorte tedesca e due nipoti; un bambino che frequenta le scuole elementari e sperimenta i primi, tenui accenni di discriminazione razziale e una studentessa alle prese con i pesanti imprevisti di una storia d’amore fra ragazzi appartenenti a culture profondamente diverse.
Il film si snoda come un racconto corale al quale, via via, partecipano attivamente tutti i personaggi e nel quale lo sviluppo narrativo, grazie all'uso del flashback, rimbalza continuamente tra le due epoche mostrando la differenza tra la gioventù di ieri, armata soprattutto di speranza e quella odierna, infettata dalla disillusione. Anche se non particolarmente originale e tutt'altro che esente da una certa dose di ruffianeria necessaria a garantirsi il favore del pubblico, la vicenda viene raccontata con dolcezza, in chiave di commedia che, nel finale, lascia spazio ad una commozione catartica. Ma la vera qualità di quest’opera sta, soprattutto, nel suggerire la circolarità delle vicende umane attraverso il rapporto tra le due generazioni più distanti. Mentre gli altri fanno i conti con amarezze e fallimenti, il nipotino scopre la storia della famiglia attraverso il racconto della cugina, sorta di cantastorie eletta dal nonno per preservare la memoria delle loro radici e, di conseguenza, la loro identità. Che il piccolo imparerà a riconoscere e ad amare durante il viaggio nel vecchio paese dal quale provengono, ultimo struggente regalo del nonno a se stesso e ad ognuno dei suoi cari. Un ritorno alle origini, alla propria essenza, un autentico passaggio di testimone dopo il quale ripartire (o restare) rinnovati e, forse, finalmente migliori.

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