Versi e rivoluzioni: Edoardo Sanguineti. Di G. Cicinelli
Edoardo Sanguineti tra ortodossia politica e genialità letteraria
Sarebbe il primo a ridere dei necrologi buonisti che hanno accolto la sua morte con l'ironia che ne ha caratterizzato l'intera vita. Edoardo Sanguineti è tra gli esponenti della cultura italiana del ventesimo secolo quello che più di ogni altro incarna il complesso rapporto tra impegno intellettuale e passione civile, anche se i suoi versi furono molto più liberi della cornice ideologica marxista che li ospitava.
Figura magra, naso dantesco, profilo ironico e disincantato, è scomparso dopo essere stato l'ultimo testimone di un ruolo politico dell'intellettuale che oggi non esiste più. Non è riduttivo della sua opera ricordare la scarsa considerazione che ebbe per la rivolta di fine secolo dei giovani cinesi in piazza Tien An Men, accusandoli di essere dei "ragazzetti innamorati del mito della Coca Cola". Eppure era la stessa persona che intendeva la poesia come: "uno sguardo vergine sulla realtà : ecco ciò ch'io chiamo poesia".
Leggere la vita in questo modo dovrebbe lasciare l'autore indenne da tentazioni autoritarie, ma il marxismo da cui proveniva Sanguineti, se da una parte diventa fonte di sperimentazione letteraria nell'Italia del dopoguerra, per molti versi è la necessità di scaraventare nell'arena politica gli intellettuali italiani formati dalla resistenza, di restituire cioè all'intellettuale il ruolo di critico del potere.
A differenza di gran parte dei gruppi delle avanguardie storiche, il Gruppo '63, che vede Sanguineti tra i fondatori insieme ad Angelo Guglielmi, ebbe il limite, possiamo dire oggi, di non porsi obiettivi omogenei e definiti. La giovane generazione di scrittori, Alfredo Giuliani, Elio Pagliarani, Nanni Balestrini e Antonio Porta, era solidale più nel rifiuto del panorama culturale presente che in una elaborazione in positivo di nuovi progetti. Sul piano linguistico è evidente il carattere eversivo, dissacratorio dei loro versi, il loro porsi in aperta contraddizione e lotta con la tradizione poetica simbolista e ermetica che aveva dominato la prima metà del secolo scorso. Una poesia, quindi, quella degli autori del Gruppo '63, che dialoga con i cambiamenti epocali che hanno avvolto l’Italia nel secondo dopoguerra (il boom economico che muta l’immaginario collettivo), ma che si muove anche su tematiche più comuni, come quella amorosa, svuotandola però dall’interno, mutandone le forme, sventrando i comuni sentori metrico stilistici.
L'esperienza sperimentale e lo studio accademico saranno sempre due attività parallele di Sanguineti - attività che lui stesso definì negli ultimi anni come di "chierico organico", nella necessità di sgretolare dall'interno il sistema - che proprio con la tesi di laurea, ben prima dell'esperienza del gruppo '63 getta le basi per alcuni dei suoi lavori critici più importanti e controversi, quelli sul Realismo di Dante e sul Dante Reazionario come recitano i titoli di due suoi studi che sarebbero poi seguiti a quegli anni. La rivoluzione, letteraria, e la conservazione nei fatti della purezza ortodossa del marxismo, rendono anche esteticamente duplice la sua figura. Lo si può sentir discorrere di abbattimento degli stereotipi borghesi, ma anche incontrarlo, vestito con gusto borghese e decadente, inappuntabile fino alla cravatta, mentre si reca alla prima di un'opera lirica.
Ma resta centrale nella sua formazione l'esperienza del gruppo '63, dove il cammino dello scrittore era verso una direzione di rifiuto, verso una letteratura rivoluzionaria. Anche se qualsiasi aggettivo affiancato alla parola poesia rischia di chiuderne e restringerne il mondo, occorre dire che la poesia di Sanguineti fu da subito una poesia “politicaâ€, del mondo, della “polis†appunto, delle “umane faccende†basata sullo stretto rapporto in chiave marxista tra ideologia e linguaggio. Gli anni '70 vedono l’opera di Sanguineti più orientata ai giochi linguistici, all’uso ironico della parola. In Wirrwar del 1972, come in Postkarten del 1978 fino a Stracciafoglio e Scartabello del 1981, rimane l’idea di straniamento del soggetto che nel composto ironico mette in luce quella trasgressione di discorsi e parole ormai logore. Sanguineti sostiene il rifiuto della sintassi con la distruzione di ogni idea sublime ed aristocratica della poesia, che è alla base delle poesie di occasione, con un registro diaristico o addirittura da cartoline da viaggio.
Occasioni di vita quotidiana che recuperano la comunicazione parlata, multietnica, in un ottica globale e internazionale dell’esistenza. Un uso ludico della parola che si ritrova anche nei romanzi, su tutti Capriccio italiano del 1963 e Il gioco dell’oca del 1967, dove Sanguineti smonta le forme di narrazione tradizionale, sovvertendo l’uso della punteggiatura e interrompendo continuamente il corso narrativo con ricordi e sogni. Jack Kerouac, parlando della sua prosa, diceva che cercava in qualche modo di riprendere il ritmo franto e sincopato della musica be-bop. Un richiamo al jazz, al trapasso dallo swing al be-bop e infine al free jazz, c'era infatti anche in Sanguineti. L'attenzione al jazz d'avanguardia e alla musica d'avanguardia tutta, fu confermata poi nel tempo dalla collaborazione, per esempio, con Luciano Berio. Ma l'uso del linguaggio "non colto" che assume Sanguineti, nonostante la funzione marxista che il poeta genovese attribuisce alla propria opera, non è mai sinonimo di una vita vissuta con il popolo, uno stile che ci porta all'ultima annotazione sulla parabola del pensiero di Sanguineti, che su questo punto entrò in un conflitto decisamento aspro con Pier Paolo Pasolini, accusato di essere conservatore, di essere utopico, di essere completamente chiuso a quello che stava succedendo nel mondo. Mentre Sanguineti e l'intero Gruppo '63 furono definiti da Pasolini dei figli di papà che si divertivano a fare gli avanguardisti totalmente asserviti al sistema.
Pasolini fu il primo nel dopoguerra a porre l'accento su una fenomeno come quello della poesia dialettale, pubblicando per Einaudi la prima antologia di poesia dialettale italiana. Sicuramente in Pasolini c'era la ricerca di un mondo dove è presente una purezza e una semplicitā umana che viene espressa linguisticamente nella non adesione alla lingua di massa, quella televisiva. Quindi il dialetto come luogo dove ci si salva, dove si resta ancorati alle tradizioni. Eppure Sanguineti non coglie il nesso che gli offre l'opera di Pasolini, perchè questa è "eretica", non conforme alla vulgata marxista che affida al proletariato la funzione di salvatore del mondo. Va detto che in quegli anni tra i '50 e i '60 persino un capolavoro come "Ladri di biciclette" di Vittorio De Sica, nella versione circolata in Urss si concludeva con i protagonisti padre e figlio che, di spalle visto che non esiste nella versione girata, si dirigono ad un comizio di Togliatti. Sanguineti non riuscì ad evadere da questa visione ortodossa dello scontro sociale, in cui Pasolini aveva invece già descritto la nuova classe sottoproletaria esclusa anche dalla speranza di un mondo migliore. Andato via Sanguineti non resta che aspettare un paio di decenni per sapere quanto resterà del suo contributo alla cultura italiana. Ma sapendo che abbiamo perso in ogni caso un gigante, molto meno conosciuto dei mille nani portatori osceni di quel linguaggio di massa televisivo e banalizzatorio, che lui ha tentato di contrastare con ogni mezzo fino all'ultimo.
Gianluca Cicinelli