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Il pianoforte ben accordato

Di: Fulvio Savagnone | 11/11/2009
L'evento è di quelli storici. E ci sono tutti quelli che ho visto spesso ai concerti "giusti". Si sorridono l'un l’altro, baci vengono scambiati, abbracci vengono stretti. Molti vestono con uno stile indiano: camicie senza collo, sete e cotone grezzi, ampli scialli, pantaloni larghi e morbidi, sandali... Occhi delineati dal khol brillano come se promettessero chissà che.
Io ho i miei soliti jeans e camicia, e la ragazza che è con me e che mi piacerebbe conquistare non ha nulla di esotico...

Come se qualcuno avesse dato un segnale, entriamo quasi tutti insieme in quello che forse una volta era un garage, appena seminterrato, ma che ora ha un ampio ingresso tutto bianco e con moquette grigia. Anche la sala principale, così vasta, ha le pareti bianche e una spessa moquette; c'è qualche tappeto e cuscini sono sparsi un po' ovunque intorno ad un pianoforte a gran coda.

All'ingresso tutti ci togliamo le scarpe. Sarà poco mistico, ma il pensiero che mi frulla per la testa è: speriamo che nessuno si freghi le mie vecchie adidas, sennò come cappero torno a casa...
Ci sistemiamo tutti intorno al pianoforte, seduti per terra o sdraiati appoggiati ai cuscini... Insomma, ci si mette davvero comodi. Sono le dieci di sera.

Finalmente entra l'Artista; con lui la sua compagna. Entrambi salutano alla maniera indiana, congiungendo le mani e inchinandosi.
Namaste. Saluto il Buddha che è in te.
Lei si siede in terra vicino al piano, dove armeggia a proiettori e faretti e sagome di varie forme sospese come i mobiles di Calder.
Lui si siede al piano. Le luci si abbassano fino quasi a smorzarsi. Mentre lui è immobile, come perso nella contemplazione di un punto ben preciso della tastiera, lei accende i vari fari che mandano luci colorate, tenui, che interagiscono con le sagome sospese che si muovono impercettibilmente.
Sembra un miracolo, invece è una legge fisica ben precisa: le ombre che le sagome proiettano sono del colore complementare a quello della luce che le investe. Il magenta diventa verde, l'arancio blu, e dove, incrociandosi, l'ombra verde si mescola con quella rossa ecco che vibra un debole giallo...

Improvvisamente echeggia un accordo sostenuto a lungo dal pedale premuto: l'Artista, di cui ci eravamo quasi dimenticati, ha cominciato a suonare. Le note si susseguono lentamente, e si accavallano, e risuonano strane al nostro orecchio: questo perché l'Artista ha speso intere settimane per accordare il pianoforte secondo la scala "giusta", basata sugli armonici naturali, in cui i vari intervalli (ottava, quinta, ancora ottava, terza maggiore...) stanno tra loro secondo rapporti di numeri interi (come già Pitagora aveva scoperto) e in cui il diesis non è affatto uguale al bemolle successivo.

Le note si uniscono a grappoli, ora lentamente, ora più velocemente, tutte tenute comunque a lungo. Risuonano strane, per il nostro orecchi abituato da 400 anni di scala temperata. La musica poi non ha armonia o melodia delineata, e sembra ripetersi uguale a se stessa. La mente comincia a vagabondare, magari perdendosi nei vaghi colori delle ombre sapientemente maneggiate dalla compagna dell'Artista.
Quando, dopo un tempo imprecisato, la mente torna a sé stessa, ad una percezione "razionale", la musica che ascolto è completamente differente da quella che avevo lasciato quando mi ero perso in quel sogno senza tempo. Con variazioni impercettibili l'Artista ha condotto la sua improvvisazione in territori lontani assai da quelli di partenza.
E così ciclicamente mi perdo per ritrovarmi in luoghi nuovi, mai esplorati prima.
Qualcuno ora dorme, comodo sui cuscini; qualcun altro addirittura russa. Ma va bene così, è come quegli spettacoli di teatro e danza Kathakali, dove il pubblico partecipa, dorme, mangia quello che ha portato con sé, dorme e si risveglia e gode di nuovo del racconto, fino all'alba.
Il piano ben accordato continua a risuonare. L'Artista si lascia trasportare e allo stesso tempo ci porta per mano. Gli intervalli naturali non sono più ostici, ma al contrario ci aiutano a lasciarci alle spalle la mente razionale. La ripetizione non è noia, ma invito al viaggio.

Viaggio che viene interrotto dalla ragazza che mi accompagna, che mi chiede di riportarla a casa, visto che sono le due di mattina, e che sono più di quattro ore ormai che l'Artista suona quel pianoforte a gran coda accordato in modo strano.

Me ne vado a malincuore, cercando di non disturbare chi sta ancora sognando sdraiato sui cuscini. Mi sono pentito di essere venuto con questa tizia, che mi obbliga ad andare via così presto e che è ovvio che non conquisterò mai.
Mentre usciamo, le ombre continuano a cambiare colore, e l'Artista continua a suonare il suo piano un po' speciale.

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L'Artista in questione è La Monte Young, e la sua compagna è Marian Zazeela.

Il concerto che ho raccontato è quello della prima mondiale (giugno 1974) de The Well-Tuned Piano, monumentale opera per piano solo la cui durata può variare tra due ore e trenta minuti e sei ore e ventiquattro minuti (ma più spesso viaggia sopra le quattro ore...).
Il concerto si svolse alla Galleria L'Attico di Fabio Sargentini, benemerito e illuminato mecenate che ha portato a Roma tutti i grandi minimalisti (Philip Glass, Terry Riley, La Monte Young, Charlemagne Palestine, più tanti altri) e varie compagnie di danze d'avanguardia (Trisha Brown, Simone Forti, Steve Paxton, Joan Jonas).
Sargentini aveva comperato per l'occasione un Bösendorfer gran coda, l'aveva installato nella galleria e l'aveva messo a totale disposizione di Young (galleria inclusa) per l’accordatura, che richiede di media un mese... Siffatte condizioni ideali non sono facili da organizzare: Young aveva ideato l'opera dieci anni prima; dalla prima mondiale sono passati 35 anni e The Well-Tuned Piano è stato eseguito solo una settantina di volte.
Ma chi è La Monte Young, e come è arrivato a tanto?
Lo saprete se ascolterete Droni e Bordoni...

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