Sleaford Mods: English Tapas
Cambiano i tempi. Cambiano le modalità. Nella compilazione di uno dei miei ultimi podcast stavo ripercorrendo la strada di due grandi gruppi britannici nati negli anni ’60. Se Pete Townshend degli Who nello sviluppo della sua opera rock mai realizzata Lifehouse (poi confluita in
Who’s Next) se la prende con i predicatori della rivoluzione che quando arrivano al potere si comportano come i loro predecessori ("Won’t Get Fooled Again"), i Kinks pagheranno di tasca propria la loro denuncia del declino della nazione con la soppressione di
Arthur (Or the Decline and Fall of the British Empire) lo sceneggiato tratto dalla loro omonima opera rock, che la classe dirigente britannica non poteva permettersi di avallare.
Questa recensione arriva fuori tempo massimo, ma spero vi farà piacere comunque leggerla. Era un dovere per me farla, perché facendo due calcoli gli
Sleaford Mods sono il gruppo che ho passato di più nei miei podcast, in virtù di un’attitudine che li fa essere punk pur non possedendone la struttura musicale. Dopo la recente uscita dell’EP intitolato ‘T.C.R.’, era molto atteso il loro esordio sulla lunga distanza per la storica etichetta britannica Rough Trade. Il primo disco dopo Brexit del duo punk-hop di Nottingham formato da Jason Williamson e Andrew Fearn, è al solito devastante, il solito concentrato di invettive feroci condite da una base musicale sempre all’altezza della situazione. English Tapas già dal titolo mette a nudo la mancanza di gusto dei sudditi di Sua Maestà, descrivendo in maniera rabbiosa il declino di una nazione che si sente superiore alle altre.
Come dicevo i tempi sono cambiati: i due spiattellano con cruda onestà le piaghe non solo inglesi ma sociali in generale, lanciando frecce avvelenate agli appassionati della cucina biologica, ai cultori del fitness, alla dipendenza da droga e alcool, allo sbrindellato tessuto sociale, all’uso ossessivo dei social networks in un flusso ininterrotto. E cambiano le modalità di denuncia: sulle ossessive e diversificate basi di Fearn, Williamson sputa fuori uno sferragliante e incontrollabile flusso di parole nel suo tipico slang delle East Midlands (da seguire leggendo i testi perché capirlo non è affatto facile). La loro formula è ormai facilmente identificabile, ma la semplicità con cui i due la fanno evolvere rimanendo fedeli a loro stessi è meravigliosamente spaventosa. Nessun gruppo incarna meglio di loro la vera essenza del punk, nessuno rimane a livelli così qualitativamente alti al giorno d’oggi.
“Army Nights” apre l’album prendendo per il culo l’idiozia degli uomini quando sono in posti dove possono riunirsi senza la fastidiosa compagnia femminile, dagli spogliatoi agli addii al celibato. Williamson sbraita tanto incazzato quanto ironico, mentre il suo compare snocciola beats sempre interessanti passando dall’incedere sferragliante di “Moptop” che attacca l’ex sindaco di Londra Boris Johnson, al mid-tempo quasi funkeggiante di “Messy Anywhere” che affronta come sempre a muso duro il problema dell’alcolismo. Tema ripreso in “Drayton Manored”, brano che parla di un viaggio verso il supermercato per fare il carico di alcool dopo aver passato la notte in un parco divertimenti, descritto come un viaggio su Marte. Sull’ossessiva base di Fearn, il suo compare sbraita parlando dell’incomunicabilità tra esseri umani “Have you ever wondered why you wonder why?”.
Il singolo “B.H.S.” narra la storia di Sir Philip Green, che nel 2000 ha comprato la catena di montaggio e magazzinaggio BHS per 200 milioni di sterline ed è riuscito a rivenderla 5 anni dopo per 1 sterlina nel 2015, ma lasciandola con un deficit di 571 milioni di sterline e mandando per strada tutti i suoi dipendenti: donne, uomini, ragazzi, madri e padri di famiglie. Dimenticavo, il pover’uomo dopo aver fatto questa porcata si è rifugiato in crociera a bordo del suo yacht da 300 milioni di sterline.
Come detto ci sono, e non potrebbe essere altrimenti, riferimenti alla Brexit in brani come “Cuddly”, mentre in “Dull” i due prendono di mira oltre al referendum secessionista e i Fab Four (“We don’t sell our souls anymore, give it away for free. “Please Please Me”. Dead bingo. Brexit loves that fucking Ringo”) anche un’altra istituzione britannica come il NME, una delle più longeve riviste musicali britanniche: “Try scrolling down a website, the NME, without laughing. I’ll give you ten quid if you can keep a straight face. Honestly, just fucking try it, mate” (“prova a scorrere il sito web del NME senza ridere. Giuro che ti darò 10 sterline se riuscirai a rimanere serio. Davvero, prova solo a farlo amico”). Poteva mancare una botta anche alla dilagante mania dei cibi biologici? Assolutamente no. Allora ecco arrivare i primi versi della punk-hip-hoppeggiante “Cuddly”: “I had an organic chicken it was shit”.
“Carlton Touts” sembra un rockabilly ubriaco alla Fat White Family (cito non a caso un altro gruppo britannico tra i meno ordinari e più eccitanti), lasciandoci una vista sul futuro non delle più eccitanti (per usare un eufemismo): “The angel of the midlands has flown away. Probably south. You can’t blame her. When the future is a flag pissed on, and a king-sized bag of quavers”.
Impietosi, dispettosi, urticanti, politicamente scorretti, 12 brandelli sanguinanti di vita reale. Non c’è scorciatoia, non c’è redenzione tra le basi in altalena tra post punk e hip hop snocciolate dal sogghignante Fearn e il fiume in piena che esce dalla bocca in perenne contorsione di Williamson. Un tuffo, l’ennesimo, nell’essenza di un gruppo che al momento sembra non avere rivali. Pensavamo che magari avessero già detto tutto, che la loro formula potesse in qualche modo mostrare qualche crepa, che il successo li potesse portare da qualche altra parte. Niente di più sbagliato, con la conclusiva “I Feel So Wrong” ci dimostrano anche che se volessero fare una sorta di singolo mainstream potrebbero riuscirci ad occhi chiusi, ma è solo un mandare in culo i fighettini hipster che li odiano.
Noi ce li teniamo stretti così come sono: assolutamente, definitivamente la fottuta migliore rock band del pianeta. Parola di Iggy Pop. (8.5)