Denver
Riassumere gli ultimi 30 anni di musica prodotta da quel pazzoide di Neil Michael Hagerty è un’impresa quantomeno tortuosa ed improba. Una storia che inizia a Washington DC, quando un giovane Hagerty si unisce a Jon Spencer e ai suoi irriverenti e sboccati compagni di avventura nei Pussy Galore. Il gruppo si dimostra presto troppo sgarbato e disgustoso per entrare nelle grazie del deus ex machina della scena hardcore della capitale statunitense, ovverosia Ian MacKaye, leader dei Fugazi e boss della Dischord Records. E allora la band fa armi e bagagli e si trasferisce nella più libertina NYC dove riesce a pubblicare un capolavoro dissacrante come Right Now!, all’interno del quale il loro blues scomposto fatto di minuscole e rumorose schegge di suono raggiunge il suo climax. Hagerty lascerà Spencer e compagnia subito dopo l’abbandono dell’altra chitarrista Julia Cafritz, e continuerà i suoi esperimenti e le sue ricerche sul suono primitivo insieme alla sua compagna Jennifer Herrema. Come Royal Trux, il duo voleva fornire una dimensione più intellettuale e meno sboccata al blues primitivo, una versione modernizzata degli incubi deliranti e psichedelici di Captain Beefheart. Dopo la pubblicazione dell’album di esordio, la coppia si sposta a San Francisco per registrare quello che sarà il loro capolavoro: Twin Infinitives, un tributo ai doppi album della storia del rock e soprattutto a Trout Mask Replica del Capitano loro nume tutelare. Nelle quattro facciate dell’album il suono viene spezzettato in mille schegge di noise-rock infarcito di elettronica registrata amatorialmente. Una lucida allucinazione apocalittica dove il blues viene trasfigurato e fatto scientemente esplodere. I frammenti rimasti vengono poi raccolti, ricomposti, allungati o rallentati a piacimento in una cosciente vivisezione della materia rock. Sembra l’inizio di un momento d’oro, ma in realtà si apre un momento difficile per la coppia, un lungo periodo di disintossicazione seguito da un’ispirazione offuscata che non gli permetterà di replicare la magia di Twin Infinitives. I Royal Trux si scioglieranno nel 2000, ma Hagerty non si fermerà, formando i The Howling Hex e non rinunciando mai alla sua missione di reinventare a modo suo il rock n’roll. La sua ispirazione ed il suo carattere lo hanno portato a girovagare spesso per il mondo, ma sembra che finalmente abbia trovato un qualche tipo di pace e stabilità a Denver. E tra una una voce e l’altra di reunion dei Royal Trux, ha trovato il tempo di riunirsi con i suoi nuovi compagni di avventura a far uscire un nuovo album per la Drag City intitolato proprio Denver, dove in poco più di 27 minuti il chitarrista riprende i suoi canovacci garage e folk modellandoli come sempre in maniera geniale. La città dove le mille contraddizioni dell’america trovano il loro climax, viene rappresentata perfettamente. Basti ascoltare come in “City Song” riesce a mandare in orbita un brano garage a tempo di música norteña. Follia che gli riesce quasi uguale in “Canyon”, costruita sullo stesso ritmo circolare e che rende difficile non battere il piede a terra ripetendo mentalmente il trascinante boom-pah-pah, boom-pah-pah. “Colfax West” spedisce a briglie sciolte la sezione ritmica in una sorta di felice country-hardcore, che continua quasi uguale nella seguente “Random Friends”, dove la chitarra di Hagerty si esibisce in un vittorioso rodeo. Spettacolo che si ripete ancora più conciso ed in versione quasi punk in “Time Gives”. “Look Out” vira i toni in una sorta di allungata ballata psichedelica, che ricorda vagamente lo spirito di Cats & Dogs, album uscito nel 1993 a nome Royal Trux. “Mountain” è un conciso singolo dove non c’è alcuna nota fuori posto, il cui video è stato diretto da Fred Armisen, autore storico del noto Saturday Night Live, ma anche della serie televisiva Portlandia scritta insieme a Carrie Brownstein delle Sleater Kinney. Nel video viene documentato un viaggio dello stesso Armisen nello studio di un canale di informazione islandese, e la parte visuale asseconda quella musicale con tagli veloci, loops, ripetizioni, cogliendo i vuoti della vita televisiva. Il gran finale è affidato a “300 Days Of Sunshine”, brano che unisce e completa tutti toni ed i suoni espressi nei 22 minuti precedenti con una precisione ed una bellezza suprema. Un vero bignami tascabile, summa della visione idiosincratica del leader, ma senza volute storpiature o inesattezze formali. L’album risulta piacevolmente conciso e meravigliosamente eseguito, in un unico flusso di abbandono creativo che da tempo non riusciva a Hagerty. Impossibile non amare questo pazzo scriteriato e le sue folli e geniali idee.