Stephen Malkmus - Wig Out At Jagbags
Chiusa definitivamente, con più o meno velate critiche da diverse parti, la parentesi della clamorosa reunion dei Pavement con un tour che ha toccato anche il suolo italico, Stephen Malkmus si rigetta a tempo pieno nei suoi progetti solisti e pubblica il suo sesto album, ancora una volta accompagnato dai fidati Jicks.
Wig Out At Jagbags, titolo la cui espressione deriva dal dialetto di Chicago e può essere tradotta come “far perdere il controllo allo sbruffone”, è stato ideato e composto tra Portland e Berlino, dove per esigenze artistiche della moglie si è trasferito con la famiglia negli ultimi due anni, e registrato in una fattoria nelle Ardenne assieme ai compagni di sempre, con un nuovo batterista (Jake Morris) a sostituire Janet Weiss impegnata in altre attività (Quasi, Wild Flag, Shins, Sleater Kinney).
La produzione, dopo la felice esperienza dell’ultimo
Mirror Traffic operata di Beck, da cui Malkmus sostiene di aver imparato moltissimo, è questa volta affidata a Remko Schouten che i tuttologi dei Pavement ricorderanno esserne il tecnico del suono durante gli show dal vivo. Ma non è da intendersi come un ritorno ad un passato che non c’è più, ad un suono che si vuole forzatamente ricreare.
Il Malkmus odierno è consapevole dei propri mezzi, ancor più dopo la reunion con gli ex compagni che ha metaforicamente messo un punto su quell’esperienza, ormai definitivamente chiusa. È un songwriter adulto - sono 48 le primavere quest’anno - con un talento non marginale nel comporre ottime canzoni e senza l’obbligo di stupire o confermare alcunché. Lo dimostrano i suoi precedenti lavori, dalla qualità sempre sopra la media, e lo ribadisce il nuovo album, intriso di trovate mai banali e arrangiamenti vivaci ed eleganti.
Il pop rock di Malkmus è un continuo susseguirsi di situazioni diverse, con frequenti cambi di tempo e di umore, perennemente in bilico tra ricerca sonora e spensierata leggerezza. Ai momenti più divertenti come
Lariat, che sarebbe potuta uscire dalla penna dei Real Estate,
Cinnamon and Lesbians o
Rumble at the Rainbo, dall’epilogo improvvisamente sbrigativo, si alternano brani meno immediati come l’opener
Planetary Motion, in costante equilibrio tra psych rock e blues o la quasi Sonic Youth
Shibboleth, anch’essa schizzata sul finale.
A tratti ritroviamo spunti loureediani (
Houston Hades,
Independence Street), caratteristica ricorrente anche nei vecchi lavori data la mai nascosta venerazione del nostro per il compianto ex Velvet Underground. Talvolta fanno invece capolino autentiche perle come
J Smoov che, con le sue pennellate di tromba, mette in mostra il lato più adulto ed intimista dell’autore, oppure ancora gli arrangiamenti orchestrali di una splendida
Chartjunk, così sontuosa nell’incedere.
Sono le diverse facce dello stesso Malkmus che, in poco più di quaranta minuti, riconduce il rock a braccetto con il pop, senza più alcun bisogno di scomodare ineleganti paragoni con il passato.