Arnold Bennett - Anna of the Five Towns
Arnold Bennett è nato in piena epoca Vittoriana in una delle cinque città del distretto delle ceramiche nello Staffordshire, nell’Inghilterra centrale. Le cinque città erano praticamente unite, e formavano un grande complesso industriale che con le sue miniere (di cui molte dismesse verso la fine del diciannovesimo secolo), i fumi delle sue ciminiere, gli altiforni che non si spegnevano mai, aveva cambiato totalmente l’aspetto della grande vallata lungo la quale si snodava. Il giovane Bennet crebbe ed frequentò le scuole in quelle città, lavorando poi come assistente notaio per il padre, che lo pagava poco, e quindi come esattore degli affitti. Conosceva quindi molto bene la vita e i problemi sia degli imprenditori che dei lavoratori del distretto, e quando decise di abbandonare quella zona e tentare la fortuna a Londra come giornalista e scrittore, dimostrò una meravigliosa capacità di calarsi nei panni dei suoi personaggi, e di rendere interessanti, perché narrati come dall’interno, perfino i più insignificanti eventi domestici, le piccole tragedie e i piccoli trionfi di un vestito macchiato o un ricevimento riuscito bene, che condizionano la vita quotidiana della società che descrive.
Inoltre è uno dei pochi scrittori di sesso maschile dell’epoca che vollero cimentarsi con il problema della condizione femminile, delle barriere psicologiche ancor prima che economiche o legali che chiudevano la donna vittoriana in una vita al solo servizio di padri e mariti. E a mio giudizio fra questi scrittori è quello che vi riesce meglio, che meglio riesce a trasmettere il senso dell’assurdità della posizione di succube della donna, attraverso la semplice descrizione dei gesti e dei pensieri quotidiani dei personaggi di ogni classe, senza il bisogno di enfatizzarli con tragiche ribellioni, come fa Thomas Hardy in Tess, per esempio, o processi e pubblica gogna come Hawthorne nella Lettera Scarlatta. E riesce anche a non descrivere la donna come una razza protetta, la descrive come un semplice essere umano. Non è da poco.
Nessuno si sognerebbe, oggi, di esporre su un palco in piazza una donna adultera con il suo bambino, o di costringerla a portare a vita il simbolo della sua colpa. E nemmeno di abbandonare la moglie la notte delle nozze per una violenza che ha subito da giovanetta. Ma quanti, sia mariti che mogli, considerano normale ed automatico che i soldi della moglie, gestiti e tenuti in serbo per lei fino al matrimonio dal padre, vengano poi gestiti dal marito, e quante mogli cedono spontaneamente il libretto di assegni e la carta di credito al marito, come se, indipendentemente da a chi appartenga il capitale della coppia, la sua gestione sia una prerogativa maschile, sebbene le donne siano riconosciute come comunque le più brave e le più capaci per le spese quotidiane di economia domestica.
Questo libro parla di una donna, e la racconta in terza persona ma dal suo punto di vista. Anna è orfana di madre, vive con il padre che è ricchissimo e avarissimo, e una sorellina dodicenne a cui fa da sorella e madre. Al compimento dei 21 anni eredita i soldi che sono stati vincolati a lei dal nonno materno, e di cui il padre non le aveva detto nulla fino a quel giorno; ma, abituata a vivere e vestire sè e la sorella con pochissimi mezzi, non sa nemmeno rendersi conto della somma che ha ereditato, e ne lascia la gestione (appunto i libretti di credito e di assegni) al padre. Solo col tempo si rende conto che i soldi significano qualcosa, che le sue rendite vengono da affitti che il padre cattivissimo spreme da imprenditori sull’orlo della bancarotta, ma quando vorrebbe rimandare, rinunciare alla riscossione dell’affitto, non può più, visto che ormai ha delegato il padre a tutto. E il padre le trova anche un investimento in un’impresa prospera, di proprietà dello scapolo d’oro della cittadina, e lei va a visitare quindi la prospera fabbrica di ceramiche di cui è divenuta socia, e può confrontarne le condizioni con quelle disperate del suo debitore, che non potrà mai prosperare proprio per le pessime condizioni in cui il padre ha sempre mantenuto la proprietà. Ovviamente lei sposerà lo scapolo d’oro, un ottimo partito, e anche un bravo ragazzo generoso, che saprà gestire al meglio il capitale della moglie. Peccato per il debitore sfortunato, che nella sua goffaggine le è anche diventato simpatico.
Tutto narrato in modo lineare, senza troppa enfasi, se non per la parte religiosa: la povera Anna soffre le pene dell’inferno per la pressione dei predicatori metodisti che la vogliono convertire a un credo basato sui sensi di colpa e sulla loro espiazione pubblica. Lei in realtà è molto sensibile, e proprio per questo si impone espiazioni private che non soddisfano il desiderio di pubblico spettacolo dei metodisti, e la fanno stare anche peggio, soprattutto perché le colpe che vorrebbe espiare non le appartengono.
Ma l’assurdità di questa schiavitù economica e sociale emerge come il messaggio più forte e potente del romanzo, proprio perché lo percorre tutto, è alla base di tutti i rapporti sociali, e viene accettato come una cosa naturale, eccetto che l’autore ne parla con quella che potrebbe essere una sfumatura d’incredulità nella voce, un’indignazione sincera per l’accettazione universale di un’ingiustizia.