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Manafon

Di: Fulvio Savagnone | 22/09/2009
Con Manafon (il nome del villaggio dove viveva il poeta gallese R.S. Thomas), uscito il 14 settembre scorso, David Sylvian prosegue il discorso iniziato con Blemish, e più precisamente con quelle tre canzoni costruite sulle improvvisazioni chitarristiche di Derek Bailey. Per inciso bisogna ricordare che, dopo venti anni buoni all Virgin, Blemish costituiva il lancio, nel 2003, della propria etichetta SamadhiSounds. Sylvian stesso notava in un'intervista che nonostante alla Virgin avesse mano libera, il fatto di incidere per una major, perdippiù spesso con collaborazioni stellari, lo limitasse incosciamente--quasi una forma di autocensura. Finalmente libero da lacci più o meno immaginari, Sylvian non teme di uscire dalla zona di conforto e di avventurarsi in territori inesplorati e decisamente poco commerciali, e soprattutto non teme di mettersi in gioco confrontandosi con i musicisti che sono stati radunati per questa nuova produzione, tutti campioni dell'improvvisazione più libera da qualsiasi compromesso. Non per niente la prima canzone del disco si apre con questi due versi:
It's the furthest place I've ever been
It's a new fronteer, for me

Le sessions di Manafon cominciano addirittura nel 2004, dopo il tour di Blemish. In questi sei anni le basi musicali sono state registrate a Vienna, con Christian Fennesz (con cui Sylvian aveva già collaborato in Blemish), Werner Dafeldecker (basso), Burkhard Stangl (chitarra), Michael Moser (violoncello), Keith Rowe (chitarra); poi a Tokyo, con Otomo Yoshihide (chitarra e giradischi), Sachiko M (con una cosa che si chiama "sinewave sampler"), Toshimaru Nakamura (con un'altra cosa che si chiama "no-input mixer") e Tetuzi Akiyama (chitarra); infine a Londra, con John Tilbury (piano) e Evan Parker e il suo Electro-Acoustic Ensemble.
Bisogna dire che già ai tempi della Virgin David Sylvian aveva sperimentato a varie riprese l'improvvisazione, ad esempio con Robert Fripp e Holger Czukay. La stessa reunion dei Japan che andò sotto il nome di Rain Tree Crow si basava su improvvisazioni in studio che venivano poi concluse in canzoni, cercando di limitare al massimo la post-produzione.
Stavolta Sylvian lascia totale libertà ai musicisti: le sessions registrate sono state usate senza nessun ritocco o post-produzione. Poi Sylvian si è posto all'ascolto dei vari pezzi buttando giù versi che venivano completati in tempi brevissimi e subito registrati: dunque anche qui una forma di improvvisazione.
I testi sono di gran qualità, come era lecito attendersi visto il personaggio: sempre percorsi da una vena malinconica (dal 2005, anno di separazione dalla moglie, David Sylvian vive in un cottage sperduto nei boschi del New England, passando, come dice lui stesso, il 90% del tempo in solitudine), cantano la perdita delle illusioni, affrontano temi di realismo sociale, pongono la questione della necessità di dare un senso alla vita, magari proprio mettendo liberamente tutto in discussione per arrivare infine all'unica soluzione, quella di seguire l'intuizione e di dar fiducia all'umanità.
Detto questo, è evidente che siamo di fronte ad un lavoro complesso, che sto ancora digerendo ascolto dopo ascolto. La parte strettamente musicale è estremamente affascinante, rarefatta, piena di spazi e silenzi, con durate dai 30 secondi ai 6 minuti, con un solo pezzo di poco più di 10 minuti.
Come dice lo stesso Sylvian, nell'ambito dell'improvvisazione il mood del brano è determinato dalla scelta dei musicisti e dalle loro peculiari caratteristiche. Ora i musicisti di Manafon appartengono quasi tutti (forse con l'eccezione di Keith Rowe e Evan Parker) alla scuola riduzionista e dell'elettronica minimalista e a basso volume (i giapponesi): da qui il tono meditativo, lento, con piccole scintille ora di piano, ora di sax, ora di violoncello o di rumori e scricchiolii elettronici che illuminano un buio carico di sensazioni e brividi.
Su questo tappeto sottilissimo si snoda a volte la voce inconfondibile ed emozionante di David Sylvian. Ecco, forse proprio qui sta il (possibile) limite di questo lavoro: Sylvian è sempre uguale a se stesso, disco dopo disco e canzone dopo canzone. Qui addirittura mi sembra che nemmeno cambi tonalità tra un pezzo e l'altro, con un effetto di salmodiare versi più che di cantare (e magari è proprio questo l'effetto voluto). Allora mi viene di chiedermi: come mai questo avventurarsi nei territori inesplorati e sconosciuti dell'improvvisazione spinta non ha suggerito al buon David di fare davvero il salto nel buio e usare la propria voce in un modo nuovo? Non dico certo di usarla come strumento, nelle sessions, ma di provare a stravolgere ancora più la forma-canzone e di interagire maggiormente col magnifico tappeto sonoro a sua disposizione.
Tutte considerazioni che comunque lasciano il tempo che trovano. Manafon è un disco interessante, forse anche importante, che va ascoltato e ascoltato, prestandogli tutta l'attenzione che merita e lasciandolo entrarci dentro. Un disco che viene da un uomo che vive nella natura e che segue i ritmi lenti dell'universo.
Ascoltiamo insieme il brano che dà il titolo all'album, una toccante confessione autobiografica.

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