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Di: Ubik | 14/04/2007
Sindrome cinese
I tafferugli scoppiati a Milano tra la comunità cinese da una parte, vigili urbani e polizia dall’altra sono un serio campanello d’allarme per le nostre città. Dopo la guerra delle banlieues di Parigi l’Italia si è ritenuta a torto immune da episodi di questo genere. I nostri immigrati, è stato detto e scritto, sono più integrati di quelli che risiedono in Francia, la nostra politica è più morbida e lungimirante. Salvo scoprire, a distanza di mesi, che l’universo cinese nello Stivale è praticamente sconosciuto e quei pochi spaccati che emergono dal riserbo e dalla laboriosità di un’etnia tra le meno rumorose impressionano: su 114 mila persone censite, solo a Prato ce ne sono oltre 23 mila (fonti ANSA), quasi tutte attive nei settori dell’abbigliamento e delle calzature, confezioni tessili per conto terzi, ristorazione. Storie di sfruttamento e di poche parole spese per evitare guai, storie che alle volte emergono in cronaca con l’aspetto di dormitori per decine di nuovi schiavi dell’età moderna. Emerge comunque un dato di fatto: anche le comunità straniere apparentemente meno emarginate e più immuni dal contagio dell’intolleranza e del fanatismo si trovano in difficoltà crescente con il modello economico e sociale che il nostro Paese propone. Quando manifestano il proprio malcontento, però, la medicina pare essere costantemente la stessa, la faccia dura dell’autorità, il manganello, certa stampa che la butta, come al solito in politica. Occorrerebbe invece molta più fatica per capire le radici tutte economiche di certo disagio, e tenere a mente che, sempre nel Bel Paese, per ogni famiglia che ogni anno pianifica le proprie ferie con sei mesi di anticipo, ce n’è una cinese – o pachistana, o indiana, o tamil – che si alza ogni mattina alle 4 e che, padre, madre e figli, si mette in moto per una giornata di duro lavoro che spesso dura più di 12 ore. E non è che siano invisibili: li possiamo osservare alle fermate degli autobus, nei loro negozi, a fare la spesa. Finora abbiamo fatto finta che non esistessero, farneticando di comunità chiuse, quando invece eravamo noi a tenere serrati i chiavistelli. La comunità chiusa ci rassicurava, non ci si aspettava che nessuno l’aprisse. Ora che l’apertura la rivendicano loro stessi, e ben all’italiana, con slogan e bandiere, l’evidenza ci intimorisce. Sarebbe tempo invece di rispondere all’evidenza con ciò che l’evidenza impone: responsabilità e azione, perché democrazia non sia solo una parola vuota. A Tien An Men, per questa parola, sono caduti a centinaia.

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