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Sindrome cinese
I tafferugli scoppiati a Milano tra la comunità cinese da una parte, vigili urbani e polizia dall’altra sono un serio campanello d’allarme per le nostre città . Dopo la guerra delle banlieues di Parigi l’Italia si è ritenuta a torto immune da episodi di questo genere. I nostri immigrati, è stato detto e scritto, sono più integrati di quelli che risiedono in Francia, la nostra politica è più morbida e lungimirante. Salvo scoprire, a distanza di mesi, che l’universo cinese nello Stivale è praticamente sconosciuto e quei pochi spaccati che emergono dal riserbo e dalla laboriosità di un’etnia tra le meno rumorose impressionano: su 114 mila persone censite, solo a Prato ce ne sono oltre 23 mila (fonti
ANSA), quasi tutte attive nei settori dell’abbigliamento e delle calzature, confezioni tessili per conto terzi, ristorazione. Storie di sfruttamento e di
poche parole spese per evitare guai, storie che alle volte emergono in cronaca con l’aspetto di dormitori per decine di nuovi schiavi dell’età moderna. Emerge comunque un dato di fatto: anche le comunità straniere apparentemente meno emarginate e più immuni dal contagio dell’intolleranza e del fanatismo si trovano in difficoltà crescente con il modello economico e sociale che il nostro Paese propone. Quando manifestano il proprio malcontento, però, la medicina pare essere costantemente la stessa, la faccia dura dell’autorità , il manganello, certa stampa che la butta, come al solito in politica. Occorrerebbe invece molta più fatica per capire le radici tutte economiche di certo disagio, e tenere a mente che, sempre nel Bel Paese, per ogni famiglia che ogni anno pianifica le proprie ferie con sei mesi di anticipo, ce n’è una cinese – o pachistana, o indiana, o tamil – che si alza ogni mattina alle 4 e che, padre, madre e figli, si mette in moto per una giornata di duro lavoro che spesso dura più di 12 ore. E non è che siano invisibili: li possiamo osservare alle fermate degli autobus, nei loro negozi, a fare la spesa. Finora abbiamo fatto finta che non esistessero, farneticando di comunità chiuse, quando invece eravamo noi a tenere serrati i chiavistelli. La comunità chiusa ci rassicurava, non ci si aspettava che nessuno l’aprisse. Ora che l’apertura la rivendicano loro stessi, e ben all’italiana, con slogan e bandiere, l’evidenza ci intimorisce. Sarebbe tempo invece di rispondere all’evidenza con ciò che l’evidenza impone: responsabilità e azione, perché democrazia non sia solo una parola vuota. A Tien An Men, per questa parola, sono caduti a centinaia.